Era il 10 settembre 2019 quando a Genova, nella sala congressi della Banca Passadore &C., si era tenuto, per iniziativa dell’Associazione di cultura economica e politica Guido Carli, il convegno “L’economia europea nel nuovo ordine internazionale”, con il discorso d’apertura di lord Mervyn Allister King of Lothbury, già governatore della Banca d’Inghilterra, e contributi di Federico Carli, Paolo Savona, Luca di Donna, Pierluigi Ciocca, Luca Bernardini, Aleksandra Arsova, Daniele Previtali, Angela Troisi, Andrea Miglionico, Valerio Lemma. Gli atti del convegno sono stati pubblicati di recente dalla casa editrice genovese Il Canneto nel libro “La Brexit e l’economia internazionale” (a cura di Federico Carli, introduzione di Francesco Capriglione), con la collaborazione di Banca Passadore e di Marsch, e ci offrono dei punti di riferimento per riflettere sugli avvenimenti degli ultimi mesi e sugli impegni che ci aspettano a breve.
Dall’intervento di lord Mervyn King e dagli altri contributi era emersa la necessità di rivedere i paradigmi seguiti fino ad allora in materia di governance europea che, a parte i risultati pratici ottenuti, sono stati prima messi in forte discussione dall’opinione pubblica, con la crescita dei parti “sovranisti” e la questione della Brexit e, poi, hanno dovuto confrontarsi con la Pandemia da Covid-19 e le misure per contrastarne gli effetti sull’economia europea.
Circa la Brexit lord Mervyn King osservava: «ci sono ragioni per restare nell’Ue e altre per uscirne. Quello che non esiste, invece, è rinunciare ai benefici della permanenza senza ottenere quelli associati all’uscita». Secondo l’ex governatore della Boe, «le conseguenze dell’uscita dall’Ue sono state notevolmente esagerate, il vero motore di entrambe le parti della disputa è politico» e le difficoltà di una conclusione della Brexit e lo stallo politico conseguente sarebbero stati superati se uno dei due partiti pro e anti Brexit avesse ottenuto una chiara maggioranza nel nuovo Parlamento.
In effetti, così è stato. Il 12 dicembre 2019 la vittoria schiacciante dei conservatori contro i laburisti ha confermato che Boris Johnson potrà procedere con la Brexit il 31 gennaio, avendo un ampio margine parlamentare per approvare la legislazione necessaria, il Withdrawal Agreement Bill, entro la data stabilita per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
Ma la Brexit è solo il risultato e la spia di un malessere socio-politico profondo dell’Unione europea. Lord King aveva denunciato i limiti di una costruzione che aveva imposto l’unione monetaria prima di quella politica con il risultato di una difficile conciliabilità tra l’ambizione sovranazionale dell’Ue e la natura democratica dei governi nazionali. « Avere messo il carro davanti ai buoi, impostando cioè l’unione monetaria prima di quella politica, ha costretto la Bce a diventare ancora più esplicita sulla necessità di “completare l’architettura” valutaria (…) La possibilità di operare trasferimenti tra gli Stati aderenti alla Bce ridurrebbe la pressione esercitata sulla banca centrale affinché essa trovi nuove strade per tenere insieme tale unione. Ma non esiste alcun mandato democratico a mettere in piedi un sistema di trasferimenti né a creare l’unione politica. Gli elettori non lo vogliono. Una forzata unione politica renderebbe in continente non più stabile, bensì meno».
Secondo lord King la Banca centrale europea «non è più una banca centrale convenzionale. Sta agendo come un’organizzazione politica di alto livello che forzatamente si sostituisce al ministro delle Finanze assente di un’incompleta unione politica. Ma per quest’ultima non c’è alcun sostegno democratico (…) Il compromesso che ne risulta è tale che i trasferimenti fiscali sono insufficienti a ridurre la disoccupazione nei paesi mediterranei e, allo stesso tempo, risultano privi di trasparenza e legittimità verso i contribuenti nordici. Un ulteriore deterioramento del sentiment economico potrebbe imporre trasferimenti ancora più grandi, che a loro volta minerebbero il fragile compromesso politico attuale».
Lord King è stato, anche in questo, profetico. Pochi mesi dopo il suo intervento l’Europa è stata investita dalla pandemia da Covid-19 e non solo si è deteriorato il “sentiment” ma l’economia del continente ha subito un colpo durissimo. E la frattura tra paesi nordici e mediterranei si è approfondita. Come è noto, ha avuto luogo un confronto aspro tra i due schieramenti. A un certo momento è sembrato che l’Unione dovesse andare a pezzi. E invece ha vinto. O perlomeno è sopravvissuta il che, in questo momento, equivale a una vittoria. Mediterranei e nordici hanno trovato un compromesso per cui l’Unione europea ha preso la decisione storica di emettere 750 miliardi di debito comune per finanziare i sussidi verso i paesi più in difficoltà, somma che va a completare il pacchetto di 540 miliardi per la linea di credito pandemica del Mes, Sure e Bei e i 1.350 miliardi di acquisti titoli della Bce. I paesi beneficiari delle risorse Ue dovranno però rispettare le raccomandazioni specifiche per paese della Commissione (comprese quelle del 2019), oltre agli obiettivi del Green deal e della digitalizzazione. Il testo finale prevede “milestones” e “targets”. Sarà la Commissione a valutare i piani nazionali di riforma, che dovranno essere approvati dal Consiglio (i governi) a maggioranza qualificata. In caso di dubbi sul rispetto degli impegni di riforma di un paese, uno Stato membro potrà bloccare la decisione di sborsare i fondi del Recovery Fund deferendo la questione al Consiglio europeo, dove i capi di Stato e di governo decidono per consenso.
Può essere questo l’inizio di una nuova politica europea che riesca a coniugare salvaguardia dell’equilibrio dei bilanci e sviluppo? Alessandra Arsova, nella sua comunicazione, proponeva di «tornare a pensare a una visione strategica di lungo periodo che punti proprio a investimenti e crescita dell’economia reale, perché la politica monetaria sta inesorabilmente esaurendosi in termini di efficacia e portata» e la relazione di Pierluigi Ciocca ricordava che «a un rigore “à la Hayek – pareggio di bilancio e basta – avrebbe dovuto sostituirsi un rigore “à la Keynes”: equilibrio di bilancio ma con meno spesa pubblica corrente e più investimenti pubblici sia ad alto moltiplicatore sia capaci di favorire la produttività delle imprese».
Ora gli investimenti sono stati imposti dalla crisi e sono ingenti, bisognerà vedere se davvero riusciremo ad accompagnarli a meno spesa pubblica corrente e a investimenti capaci di favorire la produttività delle imprese.