La Costa Concordia come esempio a livello internazionale di come sia possibile smaltire e riciclare una grande nave da crociera, ma la normativa in vigore rischia di creare un mercato a due velocità, con i cantieri italiani ed europei vincolati a regole più stringenti dal punto di vista ambientale, in uno dei mercati più globali che ci siano, quello del marittimo.
Si è parlato di “ship recycling” alla Genoa Shipping Week. A bordo della nave della Marina Militare Carlo Bergamini una sessione per approfondire la normativa, gli aspetti tecnici, ma anche di come sia necessario cominciare a creare un movimento di opinione che porti alla ratifica della convenzione di Hong Kong (vedi box) o il rischio è che resti tematica da convegni.
Il quadro normativo
Nel corso degli ultimi anni si è largamente affermata la pratica dello smantellamento e del riciclaggio dei materiali di costruzione delle navi a fine vita. Tale attività si svolge essenzialmente presso alcune nazioni del Sud-Est asiatico, in siti carenti delle norme di sicurezza e di salvaguardia della salute umana e ambientale. Tra le principali cause di tale pratica vi sono: l’aumento del prezzo dell’acciaio, del rame e dei metalli provenienti da rottamazione; il bassissimo costo e la vasta disponibilità della manodopera; la carenza di norme a tutela dell’ambiente e della salute umana.
Tale situazione limita lo sviluppo in quelle aree geografiche di strutture industriali cantieristiche idonee alla corretta demolizione e riciclaggio ecocompatibile delle navi.
Per arginare queste cattive pratiche di riciclaggio, l’International Maritime Organization (Imo), in accordo con l’International Labour Organization” (Ilo), ha stabilito tramite la Convenzione di Hong Kong (Hkc) una serie di protocolli, di criteri e di procedure da adottare per la costruzione, la demolizione ed il riciclaggio ecocompatibile in sicurezza delle navi. La convenzione deve ancora entrare in vigore. Tutte le informazioni cliccando qui.
«Abbiamo investito in conoscenza e know how – spiega Ferdinando Garrè, delle Officine Meccaniche Navali e Fonderie San Giorgio del Porto, che hanno smantellato la Concordia – abbiamo precorso i tempi in Italia, creando una nostra procedura, facendoci certificare dal Rina, eravamo l’unico cantiere italiano, ma seguire la normativa non è stato per nulla semplice».
San Giorgio del Porto ha assunto ingegneri chimici e consulenti in outsourcing per compiere un’operazione straordinaria: smantellare 65 mila tonnellate di nave, che la legge italiana considerava come un rifiuto, «alla pari di una 500 scassata», specifica Valerio Mulas, ingegnere di Officine Meccaniche Navali e Fonderie San Giorgio del Porto. Mantenere il relitto intero sino al momento in cui è arrivato all’ultimo bacino non è stato facile.
In questo caso però è stato possibile realizzare questa grande operazione perché a sostenere i costi è stata l’assicurazione. Il 22% dei costi complessivi per la demolizione, cioè 22 milioni dei 100 totali, ha riguardato la tutela ambientale.
Oggi un armatore non può più disinteressarsi della fase finale della vita di una nave. Certo è che ciò che accade per le bandiere comunitarie non è obbligatorio per il resto del mondo, creando appunto il diverso livello di competitività. Non più un guadagno, ma un costo.
Sono 34 i cantieri attrezzati, di cui 30 in Europa, solo tre, tra cui San Giorgio del Porto, quelli che hanno una capacità di smantellare navi di un certo tonnellaggio.
Anche la Marina Militare italiana, pur non essendo soggetta strettamente a normative internazionali (le navi di proprietà dello stato non sono soggette ai vincoli della convenzione di Hong Kong e alle norme che ne conseguono), ha invece deciso di aderire ai requisiti tecnici richiesti. Tutte le nuove costruzioni, a partire dalla classe Orizzonte, sono dotate dell’inventario dei materiali pericolosi, per quelle da avviare a demolizione è stato redatto l’inventario dei materiali pericolosi e il precleaning. Le gare sono aperte solo a operatori che dimostrino di operare in conformità tecnica alla convenzione di Hong Kong.
Una volta il mercato era organizzato in tre fasi: il nuovo direttamente dal cantiere di costruzione, quello dell’usato e quello della demolizione. L’armatore tendeva a disinteressarsi della fase finale. Oggi l’entrata in vigore della convenzione di Hong Kong è ben vista dagli armatori seri. Sino a oggi il mercato era fatto dal valore fisico della nave in quanto rottame: «Oggi si può ancora pensare di guadagnare qualcosa nello smantellare una bulk carrier o un tanker – dice Gian Enzo Duci, presidente di Federagenti – su altri tipi come i traghetti no. E siccome le operazioni ai massimi livelli ambientali non sono ancora obbligatorie ovunque, il rischio è che non ci sia ancora mercato per chi agisce secondo certi criteri». Oggi la scelta di rispettare i canoni di Hong Kong anche se non si è obbligati, può derivare anche dall’aspetto reputazionale. Una nave spiaggiata in Bangladesh, anche se priva di contrassegni, ma riconoscibile, potrebbe dare qualche problema a una società quotata in borsa. Per questo Maersk e Hapag Lloyd hanno deciso di aderire a ciò che è stato stabilito dalla convenzione pur non essendo tenuti a farlo.
Oggi un armatore se considere 1 il costo per la costruzione, deve calcolare 0,20 o 0,25 come costo per lo smantellamento.
Dagli armatori arriva però la richiesta di essere supportati nello sforzo, non solo sull’aspetto recycling. Fabio Faraone di Confitarma, evidenzia come ancora oggi una nave che va a gas naturale liquefatto, debba essere bulkerata a Barcellona, perché in Italia non è ancora possibile. L’investimento su questa forma di carburante decisamente più “pulita” ha un impatto del 20% in più per un armatore rispetto a una nave alimentata con il carburante attuale.
Sull’aspetto del recycling ci sarebbe anche un altro capitolo ancora più complesso, quello della nautica: «Dalla vetroresina non si ricava nulla – ricorda Duci – assistiamo a un accumulo di mezzi su spiagge e porticcioli, con la problematica di spazi occupati da barche inutilizzate perché lo smantellamento è oneroso. Con quello che è successo a Rapallo a causa della mareggiata ce ne siamo resi conto».
Alla luce di tutto questo viene da chiedersi se ci sia futuro in Italia per navalmeccanica? «Noi ci crediamo, è questione di tempo – afferma Garrè – dopo la Concordia sono stati già fatti passi importanti. Cominciamo ora a poter realizzare il sito a Piombino, sono passati 4 anni prima di poter essere iscritti all’albo europeo dei demolitori, i turchi ci hanno messo meno tempo. È chiaro che certi aspetti burocratici rendono difficoltoso creare lavoro dove ci sarebbe. In Italia la filiera della gestione del rifiuti è diversa rispetto ai Paesi extra Ue. Solo per fare un esempio 5000 tonnnellate di rifiuti della Concordia sono stati spediti in Germania perché era l’unico sito autorizzato». L’ideale quindi sarebbe creare uniformità e concorrere con stesse regole e ad armi pari.