Le recenti dimissioni del presidente del consiglio di amministrazione Giuseppe Tesauro e del consigliere Stefano Lunardi hanno riportato l’attenzione – succede ormai con una certa frequenza – su Banca Carige.
Da ormai cinque anni la banca più importante della Liguria sta vivendo una situazione di perdurante crisi dalla quale sta tentando di uscire con una serie di operazioni straordinarie sollecitate dalle istituzioni europee e nazionali, che periodicamente intervengono con revisioni – in senso sempre più restrittivo – dei criteri di valutazione degli attivi patrimoniali, cioè degli avviamenti e, soprattutto, dei finanziamenti concessi a famiglie e imprese. Tra questi ultimi, un numero sempre maggiore viene classificato come npl (non performing loan, crediti di difficile escussione), che la banca viene forzata a cedere a prezzi spesso penalizzanti a specialisti che realizzano cospicue plusvalenze.
La crisi finanziaria innescata dai crediti sub-prime 10 anni fa negli Stati Uniti e trasferitasi poi in Europa con le ripercussioni sui debiti sovrani conseguenti alla crisi greca ha infatti spinto le autorità di vigilanza europea a intervenire in modo sempre più invasivo nella gestione dell’attività bancaria, con l’obiettivo dichiarato di ridurre (azzerare?) il rischio sistemico.
Banca Carige si è trovata ad affrontare il nuovo contesto normativo con un bassissimo livello di asset speculativi, in termini di derivati e “titoli tossici”, ma con un’esposizione storicamente elevata nel settore immobiliare e, in misura minore, nei finanziamenti alle imprese del territorio, che l’hanno costretta a pesantissime svalutazioni fino ad azzerare di fatto il capitale.
In combinato disposto con l’inasprimento delle regole sull’erogazione del credito, le politiche attuate della Banca centrale europea in seguito al celeberrimo “whatever it takes” di Mario Draghi, con l’inondazione di liquidità nel sistema e l’abbassamento dei tassi di interesse in alcuni casi addirittura sotto lo zero, hanno semplicemente devastato la redditività del sistema bancario. Il sistema si è trovato a svolgere la sua attività sotto la supervisione di terzi, quasi sempre digiuni di conoscenza del territorio e del relativo tessuto economico e imprenditoriale – specialmente nei casi di banche regionali come Carige – ma forniti di un solido bagaglio teorico e ideologico che ne condiziona le scelte operative. Regole stringenti che limitano l’attività insieme a tassi bassissimi che abbattono la redditività: c’è quasi da stupirsi che il sistema bancario italiano sia ancora in piedi!
La vicenda di Carige spinge infine a un’osservazione di carattere generale su un fenomeno al quale si presta poca attenzione ma che è illuminante per comprendere il percorso intrapreso dall’evoluzione economica del nostro paese. Perché questa vicenda non è che un esempio di come l’impresa privata, sia essa una banca, una società industriale o di servizio, sia inserita in un contesto competitivo e regolatorio asfissiante – “Bce in pressing sui costi” titola il Sole 24 Ore l’articolo su Carige del 28 giugno, come se la riduzione di quasi il 20% delle filiali e del 30% dei dipendenti degli ultimi anni non fosse sufficiente – che finisce per comprometterne il ruolo sia come agente economico sia come attore “sociale” in virtuosa interazione con gli stakeholder di riferimento. E ciò in contrapposizione a un settore pubblico che continua a tirar dentro, mettendoli in carico alla fiscalità generale, numeri esorbitanti di dipendenti e pensionati senza minimamente considerare non dico criteri di funzionalità o efficacia, ma neppure un barlume di sostenibilità economica.
Settore privato ridotto all’osso da requisiti fiscali e normativi e settore pubblico elefantiaco, lassista e inefficiente: questa la polarizzazione, sempre più marcata, cui stiamo assistendo: certo non un buon viatico per le prospettive degli anni a venire.