La banca: un’invenzione genovese o lombarda? Per certo italiana. Di banche e banchieri, poi, ne sono nati ogni dove. Bancarottieri anche.
Di solito il problema più grande, per un istituto di credito nasce quando chi lo conduce e lo gestisce entra nell’ordine di idee malato che i capitali dei clienti lì depositati siano propri e ne usi e abusi a piacimento. Esempio moderno e classico, in merito, è stato il fallimento di Lehman Brothers a New York. Un colosso ritenuto in piena salute, valutato tripla A fino a un minuto prima di portare i libri in tribunale. Perché? Semplicemente il management aveva usato i denari dei clienti per speculare in proprio. Un esempio clamoroso, uno scandalo planetario, cui ha fatto seguito una crisi finanziaria ed economica mondiale. Ma nulla di nuovo.
Un fallimento simile nei modi, anche se meno sofisticato, senza derivati o junk bond, si era già vissuto, a partire dagli anni 20 del Novecento, nell’imperiese. La storia dell’epilogo di un allora noto istituto di credito ponentino verrà raccontato da Enzo Ferrari nel libro “Echi di un fallimento, Banca M. Garibaldi & C. Economia Finanza Territorio” (Editore: Philobiblon Ventimiglia), in uscita nella prossima primavera. Una storia di inizio secolo scorso, ma che sa tanto di oggi.

La Banca M. Garibaldi era un primario istituto nel panorama economico finanziario regionale. Come narra l’autore, “la banca era nata nel 1895 a Porto Maurizio (ora Imperia) come società in accomandita, sulle ceneri di un preesistente istituto con lo stesso nome; la Banca Garibaldi accompagnò in decenni di attività lo sviluppo economico della zona, favorendo diverse imprese olearie, agricole, turistiche, industriali, edili e del piccolo commercio”. L’istituto era ben strutturato per il periodo storico visto che, tra la sede e le tredici succursali, movimentava un flusso di risorse considerevole, raccogliendo capitali specie da agricoltori, reddituari, artigiani e commercianti. Una quantità di sportelli che, per l’epoca – come scrive Ferrari – è da considerarsi addirittura un po’ spregiudicata, se confrontata con quella di analoghe “ditte bancarie” di medie piccole dimensioni del periodo. Una banca che in una logica moderna potrebbe definirsi “attenta al territorio” e agli affari. Fino all’inizio degli anni Venti la Garibaldi aveva un buon seguito presso privati e imprese. Era altresì tesoriera della Provincia, del Comune di Porto Maurizio. Svolgeva servizio di cassa per l’Istituto Credito Agrario della Liguria, per l’Istituto sperimentale di floricoltura di Sanremo (quello di Mario Calvino, padre di Italo), per il Consorzio provinciale antitubercolare. Insomma, uno standing elevato, una credibilità forte.
Tutto bene, tutto in ordine fino a quando, sostanzialmente a sorpresa per i clienti, nel maggio del 1926, la banca fu dichiarata fallita. I motivi? Ci si accorse che la banca concedeva finanziamenti con sistemi errati, che la valutazione dei clienti cui venivano prestati i denari era sbagliata, che sui titoli di proprietà dei clienti venivano eseguite operazioni “non trasparenti”, che le spese personali degli amministratori venivano scaricate direttamente sul conto economico della banca, che i conflitti di interessi erano prassi. Troppo per un capitale sociale esiguo. Un dramma per i correntisti, una tragedia per il sistema imprenditoriale.
Allora, come oggi, scattarono i processi. La cronistoria dell’intervento delle toghe fu invero rapida se confrontata con quelle dei giorni nostri. Primo processo a Sanremo nel 1928, appello a Genova l’anno dopo, Cassazione nel 1930. In primo grado furono imputati gli amministratori e il direttore della filiale della Banca d’Italia. Gli amministratori furono condannati mentre andò assolto il funzionario dell’Istituto centrale. Le pene furono successivamente ridotte in appello e confermate in Cassazione. Ma il caso volle che nel 1936, con la conquista di Addis Abeba e la successiva nascita dell’Impero sui colli fatali di Roma, venne proclamata un’inevitabile amnistia e per gli imputati il carcere divenne un ricordo.
E i clienti? Al di là del processo ai responsabili, la procedura fallimentare durò la bellezza di quindici anni. Nessuno, né lo Stato né un’altra banca, si lanciò in soccorso dell’istituto imperiese. I clienti furono lasciati da soli e i curatori, alla fine del tutto, recuperarono solo il 25% dei depositi per la ridistribuzione. Migliaia di clienti privati coinvolti, rovinati, depredati del proprio futuro, decine le aziende collassate a seguito del “disastro” Banca Garibaldi.
Come scrive l’autore: “conseguenza del fallimento fu una grave crisi di fiducia che pesò sull’intero sistema economico e finanziario del Ponente, con effetti destabilizzanti di media e lunga durata. Si dovrà attendere la fine della seconda guerra mondiale per uscirne”.
Quindi non manca nulla per paragonare questa vicenda agli incubi peggiori odierni. Anzi. Nell’”affaire” Garibaldi si visse anche lo spauracchio dei giorni nostri, quel “bail in”, in base al quale a pagare il dissesto della banca possono anche essere chiamati i depositanti. Chiaro, estremizzando e non tenendo presenti tutte le tutele attualmente ben vive e vegete a tutela del risparmio italiano.
Una storia fortunatamente unica in Liguria, dove per secoli il rapporto tra la banca e il cliente è sempre stato ravvicinatissimo, nell’interesse comune. Banche considerate, in regione, spesso più come sancta sanctorum che come istituti di raccolta e credito.
Qui sono nate e vissute banche di rilevanza assoluta e che hanno avuto importanza nazionale come la Cassa di Risparmio di Genova, che oggi corre nel nome di Banca Carige, il Banco di Chiavari, le casse di risparmio del Levante ligure. A Genova ha avuto sede legale il Credito italiano, a pochi metri dalla Borsa cittadina. E a Genova è nato il sistema di gestione del debito pubblico. Era il 1141 quando nacque il contratto della “compera”, con il quale un certo numero di creditori prestava del denaro alla “Compagna communis” (cioè il Comune, prima che Genova diventasse Repubblica) in cambio della possibilità di riscuotere dai cittadini una certa imposta per un periodo di cinque anni. E “compera” veniva denominata anche la corrispondente associazione di creditori, che aveva una propria personalità giuridica. Un sistema che, poi, ha dato vita ai sistemi obbligazionari pubblici. E ha permesso agli Stati di poter programmare il proprio futuro facendo ricorso al lancio di titoli statali. Ma era un’altra Genova.