Le immagini che rimbalzano sui telegiornali sono impressionanti. La scogliera di Ventimiglia a ponte San Ludovico, affollata di persone, africani, che vorrebbero passare la frontiera e sono invece bloccate qui, quando non sono state riportate in quel luogo dalla gendarmerie francese. Le stazioni ferroviarie delle principali città trasformate – i loro atri e le piazze su cui si affacciano – in accampamenti di migranti.
Lasciamo perdere, per una volta, la qualifica di quelle persone sulla scogliera o nelle stazioni: rifugiati, clandestini,… Non importa molto. Soprattutto non importa in un Paese che, per analizzare lo status o meno di rifugiato, impiega abitualmente un anno-un anno e mezzo. Nel frattempo i richiedenti asilo (questo il termine burocratico trasmigrato anche su tutti i media) che fanno? Vegetano in centri d’accoglienza la maggior parte dei quali sono gestiti da persone per bene e da onlus caritatevoli, ma alcuni dei quali – come si sta dimostrando quotidianamente – appartengono al “giro” di chi vuol fare dell’immigrazione un affare.
Ma quale messaggio dà quella scogliera? Quale messaggio danno quelle stazioni? Occorre dirlo: il messaggio è di uno Stato (il nostro) che assiste passivamente all’attraversamento del territorio italiano da parte di migliaia di migranti. Anzi che pare voler favorire il loro rapido transito verso le stazioni e gli altri confini, contando che il maggior numero possibile di migranti si tolga di mezzo andando in altri Paesi europei.
Una soluzione pilatesca, insomma, che suona figlia dell’incapacità di trovare una soluzione. E si sa che la soluzione non può essere che internazionale. Ma, sembra di capire, l’Italia non è in stata finora grado di pesare in questo senso. Il primo ministro Renzi pare (o appare) aver sprecato in selfie sui telefonini e in tweet (su Facebook e su Youtube girano impietosi filmati al riguardo) i suoi sei mesi di presidenza dell’Unione. L’alto commissario Mogherini – a parte il prestigio di cui gode, o non gode, a livello internazionale – è la metafora di quello che è diventata l’Europa sognata dai padri fondatori nel dopoguerra. È diventata un’Unione fondata sulle regole della burocratizzazione e della finanziarizzazione, ma non è stata in grado di darsi norme capaci di costruire una politica estera comune e, tanto meno, una politica sociale comune. Un’Unione che guarda alle banche e agli equilibri della moneta più che alla politica e ai popoli e che lascia ai Paesi del proprio meridione il peso di un fenomeno inarrestabile di transumanza umana.
Il problema epocale della migrazione dal Sud del mondo si scontra, insomma, con problemi vasti, enormi di politica italiana, europea e con il ruolo sempre più appannato dell’Onu.
Quello che si chiederebbe è – a parte la consolazione dell’attività di tanti volontari, di tante associazioni, di tanti medici, della Croce Rossa, e anche della saggezza finora mostrata dalle forze di polizia – l’idea di una linea politica italiana. Pare che qui da noi, in un’interminabile campagna elettorale e ricerca di consensi fine a se stesse, ci si divida solo sulla base di slogan. Ipotesi concrete, voglia di lavorare per una volta uniti di fronte a un tema immane, non se ne vedono. Non è certo un presunto e indimostrato sentimento di scarsa solidarietà degli italiani – e dei liguri in particolare – a lavorare per l’antipolitica: lo è la mancanza di idee, di proposte, di capacità di trovare soluzioni (condivise o meno).