“Farenhei. Iit – Il racconto della scienza”, pubblicato da Canneto Editore, è un libro composto da 30 racconti, frutto di un concorso letterario ideato e promosso dalla direzione Comunicazione e Relazioni Esterne dell‘Istituto Italiano di Tecnologia in stretta collaborazione con la direzione Organizzazione della Ricerca. Al concorso hanno partecipato scrittrici e scrittori e aspiranti tali che hanno tentato di declinare le tre macro-aree di ricerca di Iit (robotica, nanomateriali, tecnologie per le scienze della vita e scienze computazionali) in racconti che miscelano scienza e cultura umanistica, con l’intento di stimolare la curiosità e l’interesse per le materie scientifiche.
I 30 racconti pubblicati sono il risultato della selezione operata da una giuria presieduta da Sergio Badino della quale hanno fatto parte Alice Fornasetti, agente letteraria della Grandi & Associati, Elisabetta Migliavada, direttrice della narrativa e vicedirettrice editoriale della Garzanti, Massimo Polidoro, scrittore, divulgatore e segretario del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). I tre racconti che aprono il libro sono i primi classificati del concorso, vincitori del premio in denaro messo in palio dal Canneto Editore, i successivi 27 sono stati selezionali dalla giuria e compaiono in ordine alfabetico per titolo dell’opera.
Il libro non è in commercio ma ne verranno messe a disposizione delle copie in tutti gli eventi organizzati dall’Istituto.
Ma perché l’istituto di Morego si è lanciato in questa impresa editoriale? Lo spiega nell’introduzione il suo direttore scientifico, Giorgio Metta.
“La cultura scientifica e quella umanistica – scrive Metta – sono più strettamente connesse di quanto si possa credere. Tra le nostre responsabilità di scienziati credo si debba includere quella di mostrare il valore della cultura della scienza al grande pubblico e la letteratura, da sempre, rappresenta una delle opportunità più efficaci per farlo. Se globalmente come genere umano avessimo investito più sforzi in questo senso forse adesso avremmo, ad esempio, una società con meno paura dei vaccini o dell’intelligenza artificiale e più fiducia nel metodo scientifico.(…) I temi scientifici possono stimolare il pensiero, intrattenerci, alimentare lo spirito e consentirci una più consapevole conoscenza del mondo migliorando la qualità della nostra vita in ogni direzione proprio come si ritiene, comunemente, facciano le materie umanistiche”.
Ciò che scrive Metta è vero e tocca un tema cruciale della nostra cultura e del nostro vivere associato. La scienza e la tecnologia sono determinanti per il nostro benessere, basti pensare ai progressi della medicina o alla “rivoluzione verde”, che attraverso l’impiego di varietà vegetali selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci e nuovi mezzi tecnici e meccanici, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento ha liberato dalla fame miliardi di persone. Eppure c’è chi alla medicina preferisce l’omeopatia e all’agroindustria le ciarlatanerie bio e biodinamiche (vedi qui “Il futuro è bio?” di Silvano Fuso). Non si tratta di pochi creduloni, ma anche di decisori politici. E pensiamo all’ostilità verso i prodotti cosiddetti Ogm, al clamore suscitato dalla notizia della “carne sintetica”, ai timori che suscita il 5G. Ma l’elenco di fenomeni in cui innovazione tecnologica, sviluppo economico e cambiamento si scontrano con la diffidenza e il rifiuto determinato dalla paura è lungo e comprende anche realtà modeste ma utili con tutta evidenza. Per fare un esempio, un nostro recente articolo in cui rendeva noto che Asl3 organizzava due open day dedicati a ragazzi e ragazze per somministrare il vaccino anti-hpv ha suscitato 389 commenti furibondi e indignati. Per continuare a utilizzare i progressi della scienza e della tecnica, nei paesi a regime democratico, è indispensabile un’opera di divulgazione-educazione. In cui dovranno impegnarsi anche gli scienziati, se vorranno continuare a fare il loro lavoro.
Ed è vero che cultura umanistica e scientifica sono connesse. Anzi, sono due facce di una stessa medaglia: la cultura in sé. La contrapposizione tra sapere umanistico e scientifico è deviante e infondata. Non intendiamo avventurarci in una storia della scienza, ci limitiamo a osservare che il pensiero scientifico non si sviluppa nel vuoto ma all’interno di un quadro di idee, di princìpi fondamentali (l’indagine sulle leggi della natura presuppone la consapevolezza della loro unità e universalità e quindi un determinato universo culturale e non altri) formulati dalla filosofia e intuiti ed espressi in termini sensibili dalle arti.
La separazione tra scienza e cultura umanistica risulta particolarmente evidente – e nociva – nel nostro Paese. Basti pensare alla riforma Gentile che ha separato il liceo classico da quello scientifico. La riforma Gentile venne decisa tra l’ottobre 1922 e 1° luglio 1924 ma riprendeva molti aspetti della legge Casati del 1859-60 e discendeva dall’idealismo hegeliano.
Questa separazione non solo ha fatto della scienza la figlia di un Dio minore ma rischia di deresponsabilizzare gli scienziati. La diffidenza a priori verso il progresso scientifico e tecnico è sciocca ma questo non significa che tutto ciò che è possibile realizzare nei laboratori sia giusto e buono. E se il processo tecnico-scientifico deve essere all’attenzione di un’opinione pubblica informata e di decisori politici che non siamo dei vacui tromboni, ignari delle cose su cui sono chiamati a decidere, il suo controllo spetta in primis agli stessi scienziati. Alcuni dei racconti di questo libro – tra cui uno dei più belli, il secondo, “La muta” di Andrea Rolla – ci fanno immaginare i possibili esiti di una scienza separata dall’etica, dall’umanesimo.
Una responsabilità, quello dello scienziato, messa bene a fuoco da Giovanni Paolo II, nel Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 13 novembre 2000.
“Per lo scienziato – si legge nel testo del discorso – comprendere sempre meglio la realtà singolare dell’uomo rispetto ai processi fisico-biologici della natura, scoprire sempre nuovi aspetti del cosmo, sapere di più sull’ubicazione e la distribuzione delle risorse, sulle dinamiche sociali e ambientali, sulle logiche del progresso e dello sviluppo, si traduce nel dovere di servire di più l’intera umanità cui egli appartiene. Le responsabilità etiche e morali collegate alla ricerca scientifica possono essere colte, perciò, come un’esigenza interna alla scienza in quanto attività pienamente umana, non come un controllo, o peggio un’imposizione, che giunga dal di fuori. L’uomo di scienza sa perfettamente, dal punto di vista delle sue conoscenze, che la verità non può essere negoziata, oscurata o abbandonata alle libere convenzioni o agli accordi fra i gruppi di potere, le società o gli Stati. Egli, dunque, a motivo del suo ideale di servizio alla verità, avverte una speciale responsabilità nella promozione dell’umanità, non genericamente o idealmente intesa, ma come promozione di tutto l’uomo e di tutto ciò che è autenticamente umano”.