Inclusività, body positivity, queste idee che vengono da lontano, da una concezione della vita e dell’individuo maturata nei decenni scorsi, sono oggi valori in grado di rivoluzionare l’industria della moda. In particolare quella dell’intimo femminile, dove un prodotto, indossato dalle donne e pensato per stimolare l’interesse maschile e ispirato a stereotipi generalizzanti – il perfetto 90-60-90 – sta cedendo il passo alle esigenze reali, psicologiche e morfologiche delle donne. Non è la donna che deve adattarsi al reggiseno, e se ha difficoltà nel farlo, soffre e si sente a disagio, vuol dire che ha un corpo “inadeguato” e tuttalpiù può provare a cambiare taglia, ma è il reggiseno che deve adattarsi al corpo della donna. Che sta cambiando la percezione della propria femminilità, sempre più fatta di auto-accettazione e amore per se stessi. Una rivoluzione che ha messo in difficoltà marchi come Victoria’s Secret – con i suoi “angeli” irraggiungibili – e lo ha costretto a cambiare strategia e posizionamento, e stimola una nuova offerta. I push-up e i modelli che deformano il decolleté secondo gli analisti del marketing sono destinati a perdere progressivamente quote di un mercato che ha potenzialità enormi. Il mercato globale della lingerie, secondo GlobeNewsWire, raggiungerà circa 84,16 miliardi di dollari nel 2028, crescendo a un cagr di quasi l’8,25% nel periodo previsto 2021-2028. Negli Usa i produttori hanno colto questa tendenza e sono esplosi brand come Skims, Parade, Cuup.
Anche in Italia nel settore stanno cambiando la domanda e l’offerta, e tra i primi a cogliere la nuova tendenza sono state due giovani imprenditrici, Chiara Marconi, genovese, e Federica Tiranti, che fanno fondato Chitè, con una sede a Genova e una a Milano e il team diviso tra le due città. E sulla strada dell’inclusività sono andate oltre la tendenza in atto. Se altri produttori, in Italia e all’estero, cercano l’inclusività ampliando la gamma delle taglie e dei modelli, Chitè prevede il servizio su misura.

«Tutto è nato – dichiara Chiara Marconi a Liguria Business Journal – da un problema vissuto in prima persona da me e Federica: pur avendo due fisici diversissimi indossavamo entrambe la stessa taglia e modelli non adatti a noi, il risultato è che per noi, come per moltissime donne, il reggiseno era diventato un incubo che dovevi indossare 365 giorni all’anno».
– Dall’esperienza personale siete passate a una visione generale.
«Ci siamo rese conto che l’80% delle donne indossava un reggiseno sbagliato. Un modello o una taglia sbagliata. In Italia c’è mancanza di formazione ed educazione sul tema: indossi il tuo primo reggiseno quando sei adolescente e nessuno ti spiega che il reggiseno è il capo più tecnico nell’armadio di una donna, di fatto è l’unico capo che ha una funzione che non è quella di coprire o di proteggere ma di sostenere, e soprattutto nessuno analizza il tuo corpo, le tue forme e i tuoi bisogni in maniera strutturata per fornirti il capo giusto. Con il tempo il tuo corpo si evolve, il seno della donna è una delle parti del corpo che si evolvono maggiormente, non soltanto si ingrassa o si dimagrisce ma anche influiscono la maternità, l’età, la forza di gravità. Abbiamo creato un team di esperti (una senologa, un chirurgo plastico, una consulente di immagine e una psicologa) per sviluppare un questionario di profilazione e una customer experience supportata da una tecnologia che permetta a ogni donna di diventare più consapevole del proprio seno e trovare il modello veramente giusto per lei. Offriamo anche il servizio su misura. L’inclusività è la base della nostra concezione. Chitè è nata fondandosi su tre pillar: inclusività, sostenibilità, artigianato».
– Si è avuto un cambiamento di mentalità che ha richiesto un’evoluzione del mercato.
«Abbiamo capito che era in corso un cambio di mentalità enorme, un rifiuto della mercificazione del corpo della donna. Verso il 2018 il mondo della moda andava orientandosi verso l’inclusività, Victoria’s secret, che allora era più che in auge – alle sue sfilate si collegavano schiere di uomini italiani – non lo ha capito e ha subito una pesante battuta d’arresto. Ma il comparto dell’intimo in generale è rimasto indietro, i grossi player italiani hanno iniziato adesso, negli ultimi 18 mesi, a strizzare l’occhio verso il mondo dell’inclusività, venendo poi peraltro accusati di “pink washing”, cioè di una finta sensibilità verso la donna. È in corso un cambio generazionale enorme di come l’utente, il cliente, vuole potersi impersonificare nella comunicazione del brand. Per noi questa identificazione avviene in due modi: la comunicazione orizzontale, cioè il fatto che i clienti rispondono alle nostre newsletter, ci scrivono su Instagram, su whatsapp, sui social, parlano a Chitè come se fosse una persona, come se fosse una loro amica, e la conoscenza dei valori del brand. I clienti vogliono sapere tutto del brand: cosa c’è dietro, quali sono i valori in cui crede, chi sono i volti e le persone del team, e uno dei nostri valori portanti è l’inclusività, qualcosa che continueremo sempre a promuovere».
- Quando è nata Chitè?
«Nel 2018. Le socie fondatrici siamo io e Federica, insieme a noi ci sono i nostri fratelli Mattia e Matteo come co-founder. Mattia segue con me tutta la parte di fund raising, soprattutto la parte di negoziazione degli accordi, ovviamente con il supporto degli avvocati; mentre il fratello di Federica ci supporta nello sviluppo previsionale e strategico. A seguito del round di investimento abbiamo all’interno del capitale della società il fondo di private equity AVM Gestioni, Ligurcapital e un veicolo con all’interno circa 30 business angels, e l’anno scorso ha investito anche Cdp. Siamo nella fase di raccolta di capitali, quest’anno contiamo di raccogliere circa 2 milioni, abbiamo aperto adesso un “sfp”, cioè uno strumento finanziario partecipativo, convertendo, e stiamo parlando con diversi family office. L’sfp ti permette di avere uno sconto del 15% sul prossimo round, e il prossimo round lo stiamo già strutturando adesso per questo autunno. Il totale dell’sfp più il round in equity diretto sarà di due milioni all’incirca».».
– Qual è il vostro modello di business?
«Abbiamo un modello di business omnichannel, perfettamente integrato tra l’online e l’offline. Il round di investimento attuale è volto a espandere principalmente il modello a livello internazionale. Prevediamo una crescita costante dell’online, con un cagr del 103% stimato sui 5 anni e una forte espansione del retail. A questo affianchiamo due canali di test per i nuovi mercati che sono funzionali a definire il nostro successivo investimento con i canali diretti: i marketplace (piattaforme terze su cui vendiamo i nostri prodotti) e i corner all’interno dei centri commerciali. L’obiettivo è quello di testare il prodotto rapidamente e in maniera tattica i potenziali mercati, se i risultati sono in linea con le nostre aspettative investiamo sugli altri canali per offrire “emBRAce”, la nostra customer experience innovativa gestita e controllata da noi direttamente. Il gestione del mix dei canali di vendita ci deve sempre garantire un primo margine del 68».
– Quali sono i vostri canali di vendita?
«Abbiamo 4 canali di revenue: i negozi monomarca, a Milano, Bologna e Barcellona, aperti tra novembre e dicembre dell’anno scorso; il nostro e-commerce su www.chite-lingerie.com; i marketplaces come Zalando o Yoox e i corner dentro centri commerciali, soprattutto all’estero. Abbiamo una sede a Genova e una a Milano e il team è diviso tra le due città».
– Milano nella moda è l’ideale per il negozio bandiera, Barcellona ha un grande flusso turistico perché un negozio anche a Bologna?
«Si è deciso di aprire a Bologna perché era la seconda città come tasso di conversione online, che è la proporzione tra il numero di persone che entrano nel sito e il numero di quelle che acquistano. Non come traffico. Come traffico ne ho molto più da Genova, o da Torino o da Roma. Quando ci sono gli sconti registriamo un boom del traffico da Genova. In negozio si converte in media il 40% dei clienti che entrano, su Milano il tasso di conversione è il 65%. Sull’e-commerce il tasso è più basso, nel senso che quando l’e-commerce va veramente bene ha il 2%, vale a dire che su 100 persone che entrano nel sito 2 acquistano. Noi abbiamo rilasciato il sito nuovo a gennaio, ci abbiamo lavorato sei mesi, e adesso siamo allo 0,9%, un dato che per me è già molto alto. Molti credono che sia sufficiente avere un sito e-commerce per vendere bene ma dopo il covid il digital marketing è diventato estremamente competitivo, costoso e inefficiente. È vero che il sito permette di vendere in tutto il mondo ma non si può investire attivamente in troppi mercati assieme. Noi a oggi investiamo in Italia e Spagna e stiamo lanciando in Germania. La chiave è trovare il giusto mix. E noi, comunque, nei prossimi cinque anni, contiamo di aprire più di 20 negozi in Europa. In sostanza, per quanto riguarda il rapporto tra e-commerce e negozi, l’anno scorso abbiamo chiuso a 50/50, il primo trimestre quest’anno abbiamo fatto 60% retail e 40% on line (e-commerce +marketplace), ma in generale puntiamo a chiudere quest’anno più o meno 65%-35%. Ci servono tutti e due. Quello che ci ha sorpreso in modo positivo è che quando abbiamo costruito il business plan avevamo stimato una frequency, cioè la quantità di volte che una cliente acquista da noi in un anno, di 1,5 volte. La realtà è che le nostre clienti acquistano da noi in media 3 volte all’anno, dimostrando una forte fidelizzazione. Il tasso di fidelizzazione nell’ultimo trimestre è stato del 36% nonostante l’80% del pubblico sul sito siano clienti nuovi.”».
– Come è dislocata la produzione?
«La filiera produttiva è segmentata verticalmente: controlliamo ogni singolo passaggio della produzione di un capo. Quasi nessuno sa che dietro a un reggiseno ci sono fino a 13 fornitori e sono necessari almeno 27 passaggi di confezionamento una volta che il pezzo finisce nella mani delle sarte corsettiste. A oggi lavoriamo con 9 laboratori di sarte, si tratta di aziende indipendenti che lavorano in rete, sono in contatto tra di loro. L’artigianato, come dicevo, è il secondo pillar di Chitè. I laboratori principalmente sono nelle Langhe, dove c’è storicamente il distretto della corsetteria, che ha patito tantissimo due fattori: la delocalizzazione della produzione in paesi a basso costo di mano d’opera e il triplo crollo di un grosso marchio italiano di intimo, La Perla, che ha messo in ginocchio tutta la filiera».
– Quindi la vostra produzione è interamente italiana?
«Sì, dal filato al prodotto finito».
– Come avete organizzato la logistica?
«Ci siamo dotati di un centro logistico strutturato e adatto alle nostre esigenze»
– A quanto ammonta il fatturato?
«Come fatturato, quest’anno puntiamo a chiudere a circa 1,2 milioni, i negozi saranno uno dei driver di crescita principali. E paradossalmente costano quasi meno dell’e-commerce che deve essere costantemente supportato dal digital marketing. Nel primo trimestre abbiamo chiuso con il 300% dell’anno scorso. L’e-commerce cresce 200% anno su anno. In tre anni Chitè è cresciuta del mille per cento. Come organico, siamo in 22 compresi i team retail nei tre negozi.
– Che caratteristiche ha il mercato italiano?
«L’Italia è stata uno dei leader mondiali della corsetteria, ora il mercato è diventato polarizzatissimo: da un troviamo i brand mass market con il modello franchising come il gruppo Calzedonia (Intimissimi e Tezenis) e il gruppo Yamamay, all’altro estremo La Perla, nel mezzo c’è proprio un gap, sia in termini di distribuzione sia in termini di valore reale. Noi ci collochiamo nel mezzo, esattamente in quel gap. Offriamo prodotti realizzati artigianalmente in Italia dagli stessi laboratori storici di La Perla ma con un prezzo più simile a Intimissimi, considerando un carrello medio di 90 euro, rispetto ai 60 circa di Intimissimi e ai 350 euro come minimo di La Perla.
– Abbiamo parlato si sostenibilità.
La nostra filiera è responsabile e soprattutto certificata sostenibile. Siamo il primo brand in Italia certificato B Corp, certificazione diffusa in 78 paesi e 155 settori diversi, rilasciata da B Lab, ente no profit statunitense. Per ottenere e mantenere questa certificazione, le aziende devono raggiungere un punteggio minimo su un questionario di analisi delle proprie performance ambientali e sociali e integrare nei documenti statutari il proprio impegno verso gli stakeholder. È la certificazione più difficile nel campo della sostenibilità, siamo meno di 200 aziende in Italia certificate B Corp».
– Rispetto ai concorrenti che pure stanno muovendosi verso un modello di inclusività che cosa vi distingue?
«Siamo in grado di produrre su misura: questo è il grosso differenziale di Chitè rispetto a qualsiasi altro brand di intimo in Italia. Da noi puoi farti prendere le misure in negozio oppure on line. Dopo circa tre settimane la cliente può riceverlo a casa oppure può venire a prenderlo in negozio, come preferisce. Abbiamo sviluppato un’esperienza d’acquisto dedicata ad aiutare la donna a capire qual è il suo reggiseno, si chiama emBRAce. Analizziamo in primis l’anatomia del corpo della donna, la sua body shape e la forma del suo seno, e poi ci concentriamo sul rapporto (spesso complicato) che ogni donna ha con il proprio seno, che tipo di forma o di supporto vuoi dargli, come vuoi che appaia. Tendenzialmente chi ha un grosso seno lo vuole appiattire, chi ce l’ha piccolo lo vorrebbe più grande. A giugno lanceremo una campagna un po’ irriverente, dedicata a quelli che sono gli stereotipi intorno al seno. È una parte del corpo fortemente vittima della cultura: da un lato ha un connotato legato alla maternità, all’allattamento e all’amore e dall’altro lato è oggetto della sessualizzazione da parte dell’uomo. Il problema è che poi noi donne veniamo criticate se abbiamo un seno abbondante in “mostra”, veniamo criticate se allattiamo per strada, veniamo prese di mira se abbiamo invece poco seno. Alla fine come lo metti, dove lo metti, questo seno non va mai bene. Da quando abbiamo aperto i negozi le sales assistent di Chitè sono più psicologhe che venditrici. C’è un risvolto psicologico importantissimo riguardo al seno».
– Che età hanno in media le vostre clienti?
«Il nostro target di clientela ha tra i 28 e i 45 anni, ma l’ampliamento della collezione ci permette ora di rispondere bene ai bisogni delle donne più senior. Molte clienti sono donne in carriera: ci sono tante avvocatesse, consulenti, o arrivano dal mondo della comunicazione e del marketing. Così come le giovani mamme, che vedono il proprio corpo e il proprio seno vivere profondi cambiamenti. Questo è il tipico pubblico al quale ci rivolgiamo. Abbiamo poi anche il target più giovane, fortemente interessato alla sostenibilità e che ci vede come un “love brand”, spesso conosciuto sui social, per loro siamo un investimento responsabile e il metodo di pagamento a rate ci rende accessibili a tutti. A differenza dei classici brand di moda noi abbiamo deciso di proporre una comunicazione diversa, improntata sull’educational: tutti i nostri post sui social non parlano del prodotto ma raccontano come è fatto il reggiseno, qual è il rapporto della donna con il seno, come valorizzare la persona. È difficile costruire un brand di moda in Italia e soprattutto questo è un comparto estremamente capital intensive».
– Il colore conta?
«Sì. Il 75% della nostra collezione è costituito da una collezione continuativa, su cui lavoriamo con refill costanti e un lead time produttivo di 45 giorni. Questo ci permette di tenere sotto controllo l’inventario (elemento fondamentale nella moda) e lavorare poi con capsule collection in edizione limitata 4 volte all’anno per offrire nuovi colori e testare nuovi modelli. Nonostante questa impostazione ovviamente i colori definiscono la stagione per esempio, il color cioccolato in inverno va molto, in estate molto meno. Il bianco, l’avorio in inverno li vendi poco, dalla primavera in poi li vendi molto di più».