Il governo ha abdicato alle Regioni. Una giravolta normativa senza precedenti nella storia della Repubblica. A sostenerlo è Fondazione Gimbe, l’organizzazione indipendente che dal 1996 promuove l’integrazione delle migliori evidenze scientifiche in tutte le decisioni politiche.
“Il decreto legge 16 maggio 2020 n. 33 (art. 1, comma 16) – si legge in una nota di Gimbe – demanda interamente alle Regioni la responsabilità del monitoraggio epidemiologico e delle conseguenti azioni, con il ministero della Salute che rimane spettatore passivo da informare sui dati e sulle eventuali azioni intraprese dai governatori”.
Secondo il nuovo decreto spetta a ciascuna Regione in totale autonomia monitorare la situazione epidemiologica nel proprio territorio, valutare le condizioni di adeguatezza del proprio sistema sanitario e introdurre misure in deroga, ampliative o restrittive, rispetto a quelle nazionali.
«L’emergenza coronavirus – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – e soprattutto la gestione della fase 2 hanno accentuato il cortocircuito di competenze tra governo e Regioni in tema di tutela della salute, oltre che la “competizione” tra Regioni su tempi e regole per la riapertura. Questo decentramento decisionale dimostra che, sulla tutela della salute, dalla leale collaborazione Stato-Regioni siamo passati ad una “ritirata” del governo per prevenire conflitti con le Regioni».
Le analisi indipendenti condotte dalla Fondazione Gimbe sul nuovo decreto rivelano incongruenze costituzionali, oltre che rischi non calcolabili di questo approccio.
La Costituzione affida allo Stato da un lato la legislazione esclusiva in materia di profilassi internazionale (art. 117 lett. q), come nel caso di una pandemia, dall’altro l’esercizio del potere sostitutivo a garanzia dell’interesse nazionale nel caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica (art. 120). Tuttavia, a fronte della più grave emergenza sanitaria della storia repubblicana, il governo sin dall’inizio ha inspiegabilmente scelto di non esercitare i poteri conferiti dalla carta costituzionale.
La decisione di affidare alle Regioni il monitoraggio dell’epidemia avviene in un contesto molto incerto e poco rassicurante.
Gimbe rileva che il primo “Report di monitoraggio della Fase 2” dimostra che le Regioni non hanno fornito a livello centrale tutti i 21 indicatori previsti dal decreto del inistero della Salute del 30 aprile scorso (decreto 30 aprile). In particolare, non riporta nessuno dei 12 indicatori di processo e nel “Quadro sintetico complessivo” dettaglia solo 5 dei 9 indicatori di risultato, peraltro non tutti coincidenti con quanto previsto dal decreto, e quindi non utilizzabili per l’applicazione degli algoritmi e la definizione del livello di rischio.
In questo caso per esempio la Liguria ha ancora un’alta incidenza settimanale, ma una stima Rt di contagio piuttosto bassa e un trend in diminuzione.
Gimbe inoltre ricorda che l’impatto sulla curva dei contagi di qualsiasi intervento di allentamento del lockdown può essere misurato solo 14 giorni dopo il suo avvio: in altri termini, le conseguenze delle riaperture del 4 maggio possono essere valutate solo a partire dal 18 maggio e quelle del 18 maggio lo saranno non prima del 1° giugno.
Dal 3 giugno, data in cui inizieremo a intravedere le conseguenze sulla curva epidemica delle riaperture del 18 maggio, il via libera alla mobilità interregionale e alla riapertura delle frontiere sancirà la libera circolazione su tutto il territorio nazionale anche dei soggetti contagiati.
La Fondazione inoltre evidenzia che non esiste una strategia sanitaria nazionale ma solo variabili orientamenti regionali variabili per bilanciare tutela della salute e rilancio dell’economia. In particolare le Regioni hanno una propensione molto diversificata ad effettuare tamponi diagnostici: a fronte di una media nazionale di 61 per 100.000 abitanti al giorno, si va dai 17 della Puglia ai 166 della Valle D’Aosta. In assenza di uno standard nazionale, tali differenze condizionano l’implementazione della strategia delle 3T (testare, tracciare, trattare), permettono un utilizzo “opportunistico” dei tamponi e sanciscono ancora prima della sua introduzione il fallimento dell’app Immuni, che per definizione è uno strumento “tampone-dipendente”.
L’indagine siero-epidemiologica nazionale è partita in grande ritardo e non sappiamo quando saranno disponibili i risultati; le Regioni peraltro hanno adottato protocolli propri utilizzando test differenti.
Le modalità organizzative per la gestione territoriale dei casi positivi – Unità Speciali di Continuità Assistenziale (Usca), isolamento domiciliare in strutture dedicate, prescrivibilità dei tamponi da parte dei medici di famiglia, eccetera, sono caratterizzate da immancabili diseguaglianze regionali.
Con queste premesse Gimbe indica solo due ragionevoli certezze sulla fase 2: gli indicatori più affidabili per monitorare l’eventuale risalita della curva epidemica non possono che essere i ricoveri ospedalieri e l’occupazione delle terapie intensive, dati al tempo stesso tempestivi e affidabili in quanto raccolti dai flussi ospedalieri.
I risultati sul contenimento del contagio sono in larga misura affidati alle responsabilità individuali dei cittadini, attraverso il rispetto delle norme di distanziamento sociale e l’uso delle mascherine.
«È evidente che le decisioni sulle riaperture – sostiene Cartabellotta – hanno anteposto gli interessi economici del Paese alla tutela della salute. Tuttavia la dichiarazione di Giuseppe Conte secondo cui si tratta di un rischio calcolato è smentita dall’impossibilità stessa di calcolarlo, perché la gestione e il monitoraggio dell’epidemia sono affidati a 21 diversi sistemi sanitari che decideranno in totale autonomia ampliamenti e restrizioni delle misure in base ad una situazione epidemiologica autocertificata. La storia insegna che non è sano quando controllore e controllato coincidono».