Alcune parti delle due proposte di legge sul servizio idrico attualmente in discussione alla Camera se approvate rischierebbero di compromettere lo sviluppo del settore, interrompendo il percorso di crescita degli investimenti e di miglioramento della qualità incominciato nel 2012.
Il settore idrico italiano è stato caratterizzato da una serie importanti di riforme, la prima delle quali risale al 1994 ed è ricordata come Legge Galli. Prima di tale riforma il settore era fortemente frammentato, poiché era costituito da migliaia di gestioni in economia (tendenzialmente a livello municipale), con un bassissimo livello di industrializzazione del servizio. La Legge Galli si proponeva di superare questo stato di cose favorendo la diffusione di un approccio industriale alla gestione del servizio, al fine di contenere le ingenti perdite di rete che caratterizzavano diverse aree del paese e di favorire la realizzazione degli ingenti investimenti di cui il settore aveva (e purtroppo ha, ancora) disperato bisogno. La creazione di ambiti territoriali ottimali, che superassero i confini comunali e la previsione di copertura del costo totale del servizio (costi operativi e costi di approvvigionamento del capitale) tramite tariffa, rispondeva all’esigenza di fornire ad operatori di maggiori dimensioni le risorse per effettuare gli investimenti necessari per l’ammodernamento della rete, anche a fronte dell’impossibilità di utilizzare la leva della spesa pubblica.
L’evoluzione del settore idrico è stata tuttavia molto lenta, soprattutto per le incertezze e le numerose debolezze del quadro regolatorio, per lungo tempo incardinato presso il ministero dell’Ambiente: a oggi esistono ancora più di 2000 gestori a vario titolo coinvolti nel settore.
L’evoluzione normativa successiva alla Legge Galli non ha favorito il processo di industrializzazione del servizio, anche alla luce della volontà del legislatore di inserire il servizio idrico nella più ampia riforma dei servizi pubblici locali. In particolare, il tema della concorrenza per il mercato – vale a dire, l’obbligatorietà o meno dell’utilizzo della gara a evidenza pubblica al fine di selezionare il gestore del servizio idrico integrato – ha generato posizioni contrastanti, sia tra le forze politiche che nell’opinione pubblica. L’obbligatorietà della gara a evidenza pubblica come modalità ordinaria di gestione del servizio è successivamente venuta meno con il referendum del 2011: lo “shock” referendario ha spinto il Parlamento a varare una riforma che ha consentito di dotare il settore di una regolazione economica forte e, soprattutto, indipendente.
Dal 2013 l’Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente (Arera) è stata investita del compito di regolare anche il settore idrico. L’Autorità ha quindi introdotto e sviluppato un nuovo metodo tariffario e ha affrontato in modo convincente l’annoso problema della valutazione degli asset non ancora ammortizzati in caso di subentro nella gestione, questione che in passato aveva contribuito a frenare gli investimenti nel settore. I dati relativi al periodo successivo all’introduzione del nuovo assetto regolatorio mostrano evidenti miglioramenti della performance del settore sotto il punto di vista degli investimenti, che sono triplicati nel periodo 2012-2018. Inoltre, il tasso di realizzazione degli investimenti rispetto a quelli programmati è salito al 90%, a fronte del 60% osservato nel periodo di regolazione ministeriale.
Attualmente sono in discussione alla Camera due proposte di Legge (PdL A.C. 52 e Pdl A.C. 773) che si propongono di riformare profondamente il settore. Entrambe le proposte di legge contengono diversi elementi condivisibili (in primis, la maggiore trasparenza della gestione, la definizione di strumenti volti a favorire la partecipazione dei cittadini, nonché una maggior tutela delle fasce più deboli) che meriterebbero certamente di essere inseriti nella legislazione. A fianco di questi esistono tuttavia altre parti delle proposte di legge che, se approvate, rischierebbero sicuramente di compromettere lo sviluppo del settore, interrompendo il percorso di crescita degli investimenti e di miglioramento della qualità incominciato nel 2012.
A destare particolare preoccupazione sono alcuni articoli della PdL A.C. 52, che potrebbero porre fine al processo di consolidamento del settore. Ad esempio, la PdL A.C. 52 prevede che nessun bacino idrico possa superare la scala provinciale: se in molte realtà locali si dovesse optare per una dimensione di bacino inferiore alla provincia, il risultato sarebbe un numero di bacini significativamente maggiore rispetto a quello degli attuali ambiti territoriali ottimali (circa 90). In secondo luogo, l’articolo 4 della stessa PdL prevede una clausola di opting out dal bacino ai Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti situati nel territorio di comunità montane o di unioni di comuni, che potrebbero decidere di gestire in autonomia il servizio idrico integrato. Se approvati, questi punti della proposta porterebbero al superamento del principio di unicità di gestione all’interno del bacino e favorirebbero certamente un’ulteriore frammentazione del settore e la perdita di importanti economie di scala, generando una non desiderata crescita dei costi di gestione che, occorre ricordarlo, sono alla base delle tariffe.
La PdL A.C. 52 propone inoltre di eliminare i poteri regolatori in capo ad Arera e di ritornare alla regolazione ministeriale: in questa ipotesi il ciclo elettorale potrebbe avere effetti negativi sulla regolazione del settore. La teoria economica suggerisce infatti di affidare la potestà regolatoria a una autorità indipendente dal potere politico in quanto, essendo più libera dalle pressioni politiche rispetto a un ministero, può assumere decisioni finalizzate a perseguire il benessere dei consumatori nel medio-lungo termine. In concomitanza di importanti elezioni, un regolatore non indipendente potrebbe essere spinto a ridurre eccessivamente le tariffe; questo porterebbe ai cittadini solo un beneficio di breve periodo, perché la conseguenza potrebbe essere un ritardo negli investimenti e possibili peggioramenti del servizio.
L’elemento più dirompente della proposta di legge A.C. 52 è il superamento del principio del full cost recovery, vale a dire l’idea, inserita nella legislazione europea, che la tariffa debba coprire gli interi costi di produzione del servizio. La proposta prevede che gli investimenti siano finanziati tramite fiscalità generale. Questo avrebbe due importanti conseguenze: a) i consumi di acqua aumenterebbero, contribuendo al depauperamento di una risorsa scarsa; b) l’utilizzo massiccio della fiscalità generale in un settore ad alta intensità di capitale introdurrebbe costi nascosti legati agli effetti distorsivi della tassazione, per non parlare delle ricadute sul debito pubblico del paese e sui suoi costi di finanziamento. L’eliminazione della regolazione indipendente accompagnata dall’abolizione del principio del full cost recovery, rischierebbe di lasciare il settore in balia della politica che, a ogni sessione di bilancio, dovrebbe decidere quanto investire. Alla luce del chiaro bias pro spesa corrente che ha caratterizzato gli ultimi governi e della situazione di finanza pubblica in cui versa il nostro paese, l’abbandono del principio del full cost recovery determinerebbe molto probabilmente una contrazione degli investimenti nel settore che, pur in crescita, non hanno ancora raggiunto la media europea.
Infine, per quanto concerne le forme di affidamento, in luogo delle modalità di affidamento attualmente previste (i. affidamento in house, ii. società mista e iii. affidamento a gestore privato, coerentemente con le disposizioni comunitarie), la PdL A.C. 773 prevede una priorità a favore di società interamente pubbliche, mentre la PdL A.C. 52 ammette esclusivamente aziende speciali o enti di diritto pubblico. Al di là dell’eterno dibattito relativo alla maggior o minore efficienza delle imprese pubbliche o private in settori monopolistici e alla perdita di potenziali sinergie associate alla produzione congiunta di diversi servizi pubblici locali, ci preme ricordare che il rimborso degli azionisti privati comporterà una spesa one-off di circa 15 miliardi di euro, alla quale andranno aggiunti, ogni anno, circa 7 miliardi di euro dovuti al finanziamento degli investimenti programmati e alla distribuzione gratuita (indipendente dal reddito) di 50 litri per abitante al giorno (novità prevista dalla PdL A.C. 52). La copertura di tali spese attraverso la fiscalità generale potrebbe generare un risultato iniquo, dove gli utenti benestanti verrebbero sussidiati da quelli economicamente disagiati.
Queste (e altre) proposte contenute nella PdL A.C. 52 rischiano seriamente di compromettere il faticoso processo di evoluzione e industrializzazione del servizio idrico italiano. Ci auguriamo che gli obiettivi di tutela degli utenti più deboli sia perseguito favorendo il potenziamento di strumenti già esistenti o allo studio di Arera, come l’adozione di strutture tariffarie a scaglioni crescenti per incentivare l’uso consapevole della risorsa o il bonus idrico per rispondere alle esigenze delle utenze indigenti, evitando di perseguire, ideologicamente, “riforme strutturali” (ripubblicizzazione completa del settore, gestori di ridotte dimensioni, ricorso ingente alla finanza pubblica) che avrebbero, come unico risultato, quello di far precipitare nuovamente il settore negli anni ottanta.
(Anna Bottasso e Maurizio Conti, professori al Dipartimento di Economia dell’Università di Genova)