L’autore di “Patriot”(Mondadori, traduzione dall’inglese di Teresa Albanese, Sara Crimi e Laura Tasso), Aleksei Navalny, secondo quanto ha annunciato il Servizio federale delle prigioni russe (Sfpr) è morto, a 47 anni, venerdì 16 febbraio 2024. Si sarebbe sentito male mentre camminava nel cortile del carcere perdendo conoscenza. Nonostante “le tempestive cure mediche” e l’arrivo di un’ambulanza, tutti i tentativi di rianimarlo sarebbero risultati vani. L’Sfpr ha annunciato che le cause della morte sono “in via di accertamento”.
Secondo la tv di Stato Russia Today, l’oppositore russo sarebbe morto per un coagulo sanguigno”, una trombosi. Navalny era recluso nella colonia artica IK-3 nella regione russa di Yamalo-Nenets dove stava scontando una cumulo di pene, così arbitrarie e assurde che è persino di difficile quantificarle: si va da 19 a 30 anni. Secondo la stampa libera, la famiglia e i collaboratori, della sua morte è responsabile Vladimir Putin. Forse non sapremo mai la verità “tecnica”. Non ci si può aspettare dalle autorità russe un’autopsia indipendente da parte di esperti indipendenti in medicina legale alla presenza di osservatori internazionali e della famiglia Navalny, e le associazioni che si battono contro la dittatura del Cremlino non hanno la possibilità di eseguire accertamenti. Ma qualsiasi cosa sia successa quel 16 febbraio 2024, non c’è dubbio che la responsabilità morale e politica della morte del dissidente sia di Putin.
Navalny il 20 agosto 2020 era stato avvelenato con un agente nervino mentre era a bordo di un aereo partito da Tomsk, in Siberia, diretto a Mosca. Finito in coma, ricoverato all’ospedale russo di Omsk, in cui nessuno aveva riscontrato segni di avvelenamento, era stato trasferito, su pressione dell’opinione pubblica mondiale, all’ospedale Charité di Berlino dove venne accertata la causa dell’avvelenamento e dove venne curato. Ma non era quello il primo attentato alla sua integrità fisica. Navalny è stato due volte vittima di attacchi con Zelyonka, un colorante antisettico triarilmetano diffuso in Russia e in Ucraina. Una specie di vernice verde che in Russia i sostenitori di Putin sono soliti gettare in faccia ai dissidenti. È molto difficile da lavare via dalla pelle e a contatto con gli occhi può provocare anche la cecità. La prima volta è accaduto nel marzo 2017 a Barnaul, in Siberia, e Navalny non aveva riportato danni fisici tanto che aveva postato su Twitter la sua foto con la faccia e le mani completamente verdi, ironizzando: “Aprirò la sede di Barnaul nelle vesti del film The Mask”. Con la seconda aggressione, avvenuta il 27 aprile dello stesso anno il colorante, probabilmente mescolato a una sostanza chimica caustica, gli ha provocato un’ustione all’occhio destro, salvato con un ricovero in una clinica di Madrid.
Guarito dall’avvelenamento, Alexei con la moglie Yulia è tornato in Russia nel gennaio 2021. Durante la sua degenza in Germania intanto la giustizia russa aveva emesso nuovi mandati di arresto contro di lui. Il dissidente sapeva che tornare in patria significava consegnarsi alle autorità. È stato arrestato dopo l’atterraggio. La colonia IK-3, dove è stato trasferito a fine dicembre 2023, nella regione di Yamalo-Nenets, è una striscia di terra che si estende dal Nord della Siberia fino al mare di Kara, centinaia di chilometri al di sopra del Circolo Polare Artico. Nella lingua dei Nenets, Yamal significa la fine del mondo, un luogo remoto e ventoso ricoperto dal permafrost, fiumi e tundra artica. Un carcere – ex gulag del periodo sovietico – dove il dissidente non aveva motivo di essere recluso e dove ha trovato la morte, se non su ordine diretto dell’autocrate russo per le condizioni estreme in cui era costretto a vivere.
Navalny ha iniziato a scrivere Patriot nel 2020, poco dopo l’avvelenamento del 20 agosto. Il libro racconta tutta la sua vita: la gioventù, il matrimonio, l’attività politica, gli attentati, il matrimonio e la famiglia, ma non si diffonde sull’evoluzione del suo pensiero politico: la svolta decisiva, che farà di lui un personaggio di statura mondiale e una vittima dei criminali padroni della Russia avviene quando comincia a smascherare la corruzione e le ricchezze degli oligarchi e del loro capo: Vladimir Putin. Nel 2011 Navalny crea la Fondazione anticorruzione (Fbk) che conduce indagini e pubblica numerosi rapporti che denunciano e documentano la corruzione dell’oligarchia al potere. L’attività anticorruzione ha successo, e dimostra, tra l’altro, che non tutti i russi sono prigionieri della propaganda del potere. Nel 2013 Navalny ottiene il 27% dei voti come candidato a sindaco nelle elezioni amministrative di Mosca. Tanto successo segna la sua fine. Alla fine del 2017 viene formalmente escluso dalle presidenziali del 2018 a causa di una condanna in un caso (chiaramente inventato) di frode.
Patriot, quindi, non è un saggio storico-politico, è un diario, ironico, segnato da “un allegro stoicismo in condizioni che appiattirebbero chiunque altro” come ha sottolineato il New York Times, e insieme commovente, degli ultimi anni trascorsi da un uomo che non ha commesso alcun crimine, in un carcere brutale e la dimostrazione che si può combattere per i principi di libertà anche a costo della vita: una dimostrazione rivolta ai russi, certo, ma anche noi, “occidentali” che non abbiamo mosso un dito per la soppressione della libertà a Hong Kong, finita totalmente nelle mani della Cina, con numerosi esponenti della resistenza incarcerati, che forniamo aiuti all’Ucraina con il contagocce – e, forse, con Trump al potere, costringeremo questo paese martoriato alla resa – e chissà come reagiremo se e quando la Cina occuperà Taiwan. Abbondano i Chamberlain e i Daladier, in questo momento storico, manca un Churchill.
Patriot dimostra che ai tiranni ci si può opporre, se si ha la forza morale per farlo. Era ottimista, quindi, Navalny? Il suo “allegro stoicismo”, la sua ironia giocosa si fondavano su una visione ottimistica del futuro?
È una domanda che l’autore si pone nel diario il 4 giugno del 2023. “La mia risposta è che lo sono davvero. Guardiamoci in faccia, certo che vorrei tanto non dovermi svegliare in questo buco infernale e poter piuttosto fare colazione con la mia famiglia, ricevere baci sulla guancia dai miei figli, scartare i regali e dire: Caspita, è proprio quello che desideravo! Ma, per come va la vita, il progresso sociale e un futuro migliore possono essere conquistati solo se un certo numero di persone è disposto a pagare il prezzo per il diritto ad avere le propria opinione. Più ce ne sono, meno devono pagare tutti. E verrà il giorno in cui in Russia dire la verità e difendere la giustizia sarà normale e non più pericoloso”. (pag. 482).
Ottimista, quindi, ma senza illusioni sulla propria sorte. A pag. 496 scrive: “Io passerò il resto della mia vita in prigione e morirò qui. Non ci sarà nemmeno qualcuno a cui dire addio”. D’altra parte, anche se le autocrazie sono resilienti, il futuro non è del tutto prevedibile: tra i dissidenti sovietici “Anatolij Marčenko è morto per uno sciopero della fame nel 1986, e un paio di anni dopo la satanica Unione Sovietica è andata in pezzi. Dunque anche il peggior scenario immaginabile in realtà non è così malvagio. Mi sono rassegnato e l’ho accettato”. (pag. 499).
Lo ha accettato anche la moglie, Julija Borisovna Abrosimova, ora vedova Naval’naja, che ha raccolto la sua eredità e ha dichiarato alla Bbc di puntare a diventare il prossimo presidente della Russia.
Proprio nella moglie il prigioniero ha trovato un aiuto nel proseguire la sua lotta quasi senza speranza: in un colloquio in carcere, racconta, “Le ho sussurrato all’orecchio: senti, non voglio sembrare drammatico, ma penso che ci sia un’alta probabilità che da qui non uscirò mai. Anche se tutto cominciasse a crollare, mi farebbero fuori al primo segnale che il regime si sta sgretolando. Mi avvelenerebbero. Lo so – ha detto lei – con un senso di accenno e una voce calma e ferma. È quello che ho pensato anch’io” (pag. 500).