“Molte riforme per nulla. Una controstoria economica della seconda repubblica”, di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, (editore Marsilio) ripercorre la storia dei tentativi di riforma e delle riforme effettivamente adottate in Italia negli ultimi trent’anni, un’azione che gli autori definiscono «incompleta, intermittente e inconclusiva».
Non che non si sia fatto nulla. C’è stato anzi un susseguirsi di riforme «tentate, fatte, disfatte, mancate, abrogate». Tutti i governi e le maggioranze parlamentari, di destra e di sinistra, hanno sostenuto a gran voce la necessità di «fare le riforme» e hanno agito in preda a una bulimia legislativa. Il risultato è che il nostro Paese, unico in Europa, tra il 2000 e il 2019 ha subito un calo del proprio reddito pro capite dello 0,8% ed è diventato poco attrattivo per gli investimenti dall’estero. Perché? Gli autori sostengono che non sono soltanto l’eccessiva instabilità politica e la breve durata media dei governi, l’opposizione delle lobby (o meglio delle corporazioni, avvocati, notai, tassisti, concessionari pubblici – si pensi ai balneari che finora sono riusciti a tenersi le concessioni senza gara facendo pagare le future sanzioni Ue ai contribuenti – enti locali con le loro partecipate di cui è già difficile sapere quante sono, dipendenti pubblici, sindacati), l’ostilità o l’inerzia della macchina burocratica ad avere frenato l’azione riformatrice. È stato l’avere concepito e presentato all’opinione pubblica le riforme come fatti tecnici e non scelte valoriali. È stato lo spirito riformatore a mancare. Quante volte, notano Saravalle e Stagnaro, si è detto: ce lo impone l’Europa? Il giustificarsi con un vincolo esterno ha reso poco consapevoli gli italiani della necessità di cambiare norme e comportamenti.
È sicuramente così. Purtroppo, però, lo «spirito riformatore» è mancato non solo alla politica e all’informazione ma alla stessa opinione pubblica. È vero che l’opinione pubblica va orientata ma l’ostilità verso lo spirito riformatore viene dal profondo della società italiana. Tanto che le riforme effettivamente compiute o avviate, come la fine delle partecipazioni statali, il riassetto del sistema bancario, il jobs act, la legge Fornero sono state effettivamente imposte dall’Europa o dai mercati. E non le ha realizzate il centrodestra, dove la componente liberale è sempre stata ultraminoritaria – l’economista liberista Antonio Martino, tra l’altro presidente onorario dell’Istituto Milton Friedman, nei governi Berlusconi è stato ministro della Difesa e degli Esteri, ministeri prestigiosi ma non connessi alle scelte di politica economica, sicuramente per l’ostilità della sua maggioranza, forse anche con suo sollievo personale – le ha realizzate la sinistra, sotto la pressione dei mercati, dello spread, della necessità di entrare nella zona euro o di restarvi. Il riformatore più radicale emerso nel periodo della seconda repubblica, Matteo Renzi, è uno dei politici più detestati da giornalisti e opinione pubblica, non tanto per la sua, vera o presunta, arroganza, ma per avere tentato e in parte effettuato, tra il 2014 e il 2016, quelle misure che in Germania il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder nel marzo del 2003 presentò al Bundestag. Era l’Agenda 2010, che prevedeva una trasformazione radicale del mercato del lavoro, della previdenza sociale, del sistema pensionistico, dei sussidi di disoccupazione, stimolando nuova creazione di ricchezza, incitando la gente a lavorare di più e più a lungo, abbassando le tasse, tagliando costi amministrativi. E avviò la riforma del sistema pensionistico, con l’allungamento a sessantasette anni dell’età pensionabile, che in Italia fu possibile solo a fine 2011 con la legge Fornero del Governo Monti, grazie alla momentanea paralisi dei partiti, intimoriti dall’emergenza finanziaria. Anche in Germania i provvedimenti di Schröder suscitarono reazioni, la Spd fu punita dal suo elettorato e Schröder non fu più rieletto ma le sue riforme sono rimaste e hanno (ri)fatto grande la Germania. In Italia non solo Renzi è diventato il bersaglio di tutti gli antiliberali, di destra e di sinistra, ha perso il referendum che – incautamente – aveva presentato come un giudizio sulla propria azione di governo, ma sulle sue riforme e su quelle di Monti i partiti si sono gettati come iene su una carcassa. L’abolizione della legge Fornero è stata una delle promesse della campagna elettorale della Lega per le politiche del 2018. Soltanto l’arrivo del Governo Draghi ha fermato l’azione antiriformatrice di destra e sinistra.
Ora abbiamo Draghi e il Pnrr con i fondi del Next Generation Eu. Un grande tecnico (e un politico sofisticato) e un’ingente quantità di risorse. È in gioco il nostro futuro, notano gli autori. Ed è possibile imprimere all’Italia quella svolta che non si è riusciti a imprimere agli inizi degli anni Novanta. Ma è una sfida difficile perché è la stessa maggioranza che sostiene il governo a frenarne l’azione riformatrice. Si invoca una nuova consapevolezza dell’opinione pubblica. Sarebbe la nostra salvezza. Ma è probabile che a salvarci siano, come in passato, l’emergenza e la pressione dall’esterno. Del Pnrr, forse, per il nostro futuro altrettanto importanti delle risorse messe a disposizione sono gli obblighi di verifica imposti dai paesi “frugali”. Le riforme bisognerà farle, “ce lo impone l’Europa!”