Comperare soltanto nei negozi e soltanto prodotti italiani. Se dovessimo dare ascolto agli appelli che leggiamo sui giornali o sui social media dovremmo fare così, per aiutare le nostre imprese a superare questo momento tanto difficile.
L’appello a boicottare l’e-commerce viene dalla Francia, dove nei giorni scorsi il sindaco di Parigi Anne Hidalgo e altre personalità hanno lanciato la petizione #NoelSansAmazon. Dove ci si impegna a non comperare alcun regalo su questa piattaforma, accusata di distruggere posti di lavoro e anche di essere predatrice di terre con i suoi depositi e di infrastrutture pubbliche senza partecipare al loro finanziamento. Sul tema, promettente in fatto di voti da parte dei commercianti, si è buttato Salvini, che ha postato su Facebook e Twitter un sondaggio in cui chiede ai suoi follower se sia giusto boicottare Amazon, andando a comprare i regali nei negozi invece che sulla piattaforma web. Il risultato è 65 sì e 35 no.
Confesercenti così commenta la petizione di Anne Hidalgo: “Questa seconda ondata sta creando uno squilibrio di concorrenza gravissimo tra i negozi reali e il web: mentre i primi sono chiusi d’ufficio da governo e regioni, il canale delle vendite online di fatto agisce e opera in condizioni di monopolio. Un problema serissimo per i negozi, soprattutto in vista del Natale”.
Secondo l’associazione “il problema non è impedire le vendite online, ma rendersi conto della necessità non più differibile di garantire un mercato realmente concorrenziale, nel rispetto del pluralismo distributivo. A maggior ragione nella situazione attuale, che vede le imprese di vicinato chiuse per scelta amministrativa”.
A Genova si è più espliciti. Intervistata da Primocanale, Manuela Carena, presidente del centro integrato di via Colombo-Galata, secondo quanto riporta il sito dell’emittente televisiva, ha dichiarato: «Chiediamo a Comune, Regione ma anche al governo e all’Europa, che facciano come in Francia, dove le istituzioni, ma anche intellettuali e personaggi noti, hanno sottoscritto un documento in cui chiedono alle persone di non comprare su Amazon i regali di Natale, per salvaguardare i negozi».
Conosciamo l’amarezza e la demoralizzazione di tanti commercianti, che hanno subito danni gravissimi con il lockdown di primavera, e ora temono di perdere l’occasione delle spese natalizie, che per molti possono segnare la sopravvivenza o la fine della propria impresa. Ma la soppressione della concorrenza non sembra la strada giusta. L’avanzata dell’e-commerce è in atto da tempo, in questo settore l’Italia era rimasta indietro rispetto ad altri Paesi sviluppati e ora la crisi pandemica sta accelerando il processo anche da noi. I negozi di vicinato, che oltre a dare lavoro, effettivamente, come dicono le loro associazioni, contribuiscono a rendere vivibili le strade delle nostre città, alla concorrenza dell’e-commerce possono reagire come molti di loro hanno già fatto negli anni scorsi per reggere la competizione con la grande distribuzione organizzata: specializzarsi, offrire merci di nicchia e di alta qualità che per i colossi non sono facili da adottare, anche perché non permettono le economie di scala, e diventare consulenti del proprio cliente.
Fusti di detersivo o cestelli di acqua minerale si possono acquistare in un supermercato, sono uguali a quelli offerti dai negozi e in genere costano meno. Ma se vogliamo carne di animali di cascina, pane, olio, frutta, verdura, formaggi o salumi di pregio, o un oggetto di artigianato, ci rivolgiamo più facilmente a un negozio di fiducia più che a un ipermercato o ad Amazon. È vero che l’-commerce ormai copre anche la fascia alta dei prodotti ma non può offrire il confronto con il commerciante. Tanto più se nel negozio incontriamo un commerciante che è anche un consulente del cliente e che, per esempio, alla domanda “che differenza c’è tra queste patate di Arenzano e quelle di Bologna?”, ci spiega le diverse caratteristiche organolettiche, ecc… tra le due varietà e non si limita a dire, come ancora alcuni fanno: “Beh, queste sono di Arenzano, quelle di Bologna”.
Confesercenti ha ragione di chiedere un mercato “realmente concorrenziale”. Un fine da perseguire non solo in questi giorni ma anche in prospettiva. E non tanto tra i negozi fisici chiusi d’ufficio e il web (in questo caso per mettere tutti alla pari bisognerebbe chiudere anche il web – e noi dove comperiamo? – oppure riaprire i negozi dove sono chiusi), quanto nel regime fiscale. L’unica osservazione che a noi appare ragionevole nell’appello francese sembra il fatto che i colossi del web utilizzano infrastrutture senza contribuire a finanziarle. Cioè non pagano tasse in proporzione alle loro entrate. Bisogna stabilire la localizzazione degli obblighi fiscali per le multinazionali. C’è anche in Italia il tentativo di arrivare a un regime di “cooperative compliance” tassando nel nostro Paese tutto ciò che nel nostro Paese produce reddito. Sembra che le multinazionali stiano aderendo e se non lo fanno questa è la battaglia da combattere.
Ma la tentazione di liberarsi del fastidio della concorrenza con appelli di carattere etico è diffusa, tanto più in un momento questo.
Leggiamo in un comunicato di Coldiretti la notizia che “nel 2020 crescono solo le esportazioni made in Italy dell’agroalimentare e delle medicine mentre si registrano riduzioni in tutti gli altri settori”. Coldiretti segnala questa “resistenza alla crisi sui mercati esteri che ha fatto diventare la filiera agroalimentare con 538 miliardi di valore la prima ricchezza del Paese reagendo meglio degli altri settori al drammatico impatto della pandemia da Covid-19”. Giustamente l’associazione sottolinea il fatto che “l’Italia può contare sulla leadership indiscussa nella Ue per la qualità alimentare con 305 specialità Dop/Igp/Stg, compresi grandi formaggi, salumi e prosciutti, riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari”.
Buone notizie, queste riportate da Coldiretti, che ci rafforzano nell’idea che bisogna comperare italiano solo se e quando conviene. Le esortazioni che si sentono in questi giorni, a comperare italiano per sostenere il made in Italy, non hanno senso: il Made in Italy, nel food e beverage ma non solo, si afferma perché è il migliore. Quando non lo è, è giusto che ceda il passo ai concorrenti, tanto in Italia quanto all’estero. L’Italia può contare “sulla leadership indiscussa nella Ue” perché, per nostra fortuna, tedeschi, francesi, spagnoli, ecc… non aderiscono a campagne del tipo #iocomprotedesco, #iocomprofrancese, ecc… Comperano i prodotti italiani perché li trovano convenienti dal punto di vista qualità/prezzo. Un criterio da cui imprese (in primis le nostre) e consumatori hanno tutto da guadagnare.