Una moltitudine di italiani, con il terremoto del Coronavirus, ha dovuto lasciare il lavoro e mettersi in viaggio, trasportata dai cosidetti ammortizzatori sociali. I passeggeri non sanno quanto durerà il loro percorso e nemmeno dove li porterà. Quel che è certo è che si muovono in condizioni molto differenti.
Il veicolo principale resta lui, il treno della cassa integrazione, libero e privilegiato di viaggiare ovunque, senza autocertificazione. È un treno antico, romantico, quasi dimenticato. Ora è affollato, zeppo di lavoratori senza lavoro. Per ognuno dei passeggeri c’è posto, distinto per classe: come ogni treno per bene del passato.
Nella prima classe si accomodano i passeggeri ai quali i datori anticipano quanto dovuto dallo Stato, senza attendere i suoi tempi, e che garantiscono un’integrazione affinché lo stipendio di fine mese sia il solito, uguale a quello di quando i loro dipendenti lavoravano.
La seconda classe è affollata. Sono tanti i viaggiatori che devono attendere la loro paga dall’Inps, chissà quando: ma non sono arrabbiati, conoscono e stimano il datore di lavoro, e sanno bene che lui è in difficoltà, tanta. Non è forte come quello di chi sta in prima classe. Attendono, con rassegnazione e dignità.
Nella terza classe nessuno parla. Impauriti e prigionieri i passeggeri sono lì negando di essere lì. Sono anche loro passeggeri della cassa integrazione, eppure continuano a lavorare. In nero, come nero è il denaro contante che paga il loro silenzio.
“La prima classe costa mille euro/La seconda cento, la terza dolore e spavento” (cit. F. De Gregori)