Come la peste del 1656/1657 divenne la più grande tragedia della storia della città. Forse diventa utile di questi tempi guardare ai comportamenti e alle reazioni di chi si trovò di fronte al dilagare di un morbo impietoso.
Sottovalutazione, colpevoli ritardi nell’adottare misure di contenimento, insopprimibile e incalzante desiderio popolare di tornare alla normalità, scelte avventate per non dire dissennate, convinzione di alcuni di essere esenti dal contagio “per diritto” : tutto questo contribuì a quello sciagurato accadimento che falcidiò Genova. Alla fine del nero biennio, la città perse circa il 75% della popolazione ( da 80 a 18 mila persone approssimativamente), poco prima della soglia d’estinzione. Mortalità superiori venivano rilevate per paesi come Sampierdarena ove ai principii di settembre 1657, su 4.200 abitanti ne risultavano sopravvissuti appena 1.000, o come Sestri Levante che al 25 settembre dello stesso anno, su 6.000 anime ne contava “già morte più di 4.500 ed il peggio è che le rimanenti sono sospette”.
Di fronte al diffondersi del male, la reazione immediata fu voltare le spalle. Non si volle dichiarare la città infetta. La maggior parte dei medici sostenevano che le morti non erano dovute al contagio e ciò veniva ben accolto dalla popolazione che temeva più di ogni altra cosa l’essere privata della possibilità di comunicare e di trafficare con i territori fuori della città. I pochi medici che sostenevano il contrario, ovvero la contagiosità del morbo, venivano derisi o perfino additati come nemici della patria. Un medico francese presente in allora constatò che in poco più di sei mesi la malattia aveva ucciso un migliaio di genovesi: era dunque “ vera pestilenza” e si sentì in dovere di convincere il Magistrato di Sanità. Tuttavia a dicembre (1656) il morbo si affievolì , quasi da far pensare al miracolo, dopo che per ben tre volte dal novembre di quell’anno fino al febbraio del successivo, con una cerimonia istituita ad hoc dai Signori Serenissimi della Repubblica d’intesa con le autorità ecclesiastiche, la città intera era stata benedetta dalla torre più alta del Duomo, con le ceneri di San Giovanni Battista portate in quel luogo.
Peraltro tutto concorreva in questa direzione. Diminuivano i malati, i Lazzaretti sempre meno affollati, i morti poche decine al giorno. Si chiudeva il primo anno di peste con un bilancio di poco meno 2400 decessi. L’ottimismo sembrava esplodere, rendeva evidente l’insopprimibile desiderio di ritorno alla normalità di tutta la popolazione( oggi si direbbe “ i diritti” ). Solenne Te Deum in San Lorenzo, abolite le poche restrizioni alle attività economiche grandi o minori che fossero, definitive sentenze dei medici che dichiararono la Dominante , diremmo oggi , “plague-free”. Tuttavia la malattia si era solo messa in letargo per breve tempo per riemergere a tarda primavera in modo violentissimo, subitaneo, devastante. La vera peste cominciava solo adesso e in pochi mesi fra giugno e luglio del 1657 fece quello che aveva fatto a Napoli, riempiendo la città intera di migliaia di cadaveri.
Qualcuno ha incolpato il fanatismo religioso popolare che assecondato da presunte apparizione della Beata Vergine fece credere al miracolo e spinse la gente a uscire fuori. Gravi responsabilità sono certamente da attribuirsi alle istituzioni , alle autorità e ai medici che presero sotto gamba l’attività sonnacchiosa del morbo che con poche decine di morti al giorno segnalava la persistenza comunque della malattia. Sembra inoltre accertato che la peste compì un salto qualitativo, tramutandosi da bubbonica a setticemica, dunque enormemente più letale, pressoché inguaribile con una mortalità oltre il 90%, e fulminea, visto che si andava al creatore in una o due giornate massimo, toccando tutti senza distinzione, anche gli elevati ranghi della nobiltà cittadina che perse quasi trecento dei suoi membri.
Alla fine dell’epidemia i 107 sopravvissuti del Maggiore e Minor Consiglio, constatavano che più del 40 per cento di loro era passato a miglior vita. Gli scrivani dei pubblici uffici, incarico riservato solitamente ai nobili, per i due terzi erano stati falciati dal male.
Di fronte al minimo segnale di una possibile epidemia, che non è solo una malattia di tanti singoli, ma una trasfigurazione del modo di vivere e di morire, la voglia di scappare dalla realtà prevale: si rimanda, si traccheggia, si nega financo, ricorrendo a svariati espedienti, da quello consolidato del capro espiatorio, alla messa in stato d’accusa dei pochi che dicono l’inascoltabile verità come “ nemici della patria”, fino allo slittamento semantico: prima la peste non è , poi è peste, ma , per sbieco , come aggettivo sotto la meno inquietante formula della febbre pestilenziale, per arrivare , tardi, alla tormentata agnizione “ si, è peste”. Lo dice proprio così il nostro Alessandro Manzoni a proposito di un’altra peste ,quella, ben più nota, di Milano. Da consultare: Danilo Presotto, 1656/ 1657 Cronache di una pestilenza, Società Ligure di Storia Patria( su internet in anastatica ); Romano da Calice, La Grande Peste- Genova 1656/1657( ricco di molte delle qinformazioni utilizzate).