Il sindaco di Genova, Marco Bucci, sta procedendo verso la vendita delle otto farmacie comunali, enti controllati al 100% dal Comune che ne ha quindi la responsabilità della gestione, dell’organizzazione e dei risultati finanziari.
In molti si chiederanno: ma per quale motivo un Comune, o un ente pubblico in generale, dovrebbe gestire e possedere degli organismi commerciali? Il principio su cui si basava questa scelta, quantomeno in passato, era quello di fornire un servizio, ritenuto indispensabile per l’interesse pubblico ma non abbastanza profittevole per un privato. Una compensazione, quindi, di una mancanza del libero mercato.
Anche in questo caso una nobile intenzione, forse, anche se viene da chiedersi quale ragionamento abbia spinto l’ente pubblico a considerare «potenzialmente poco interessanti per il privato» zone residenziali come Quinto o Sturla, o densamente popolate come Sestri Ponente o Molassana. Più che di volontà di tutela dell’interesse pubblico si tratta probabilmente dell’ennesimo sistema di statalizzazione dell’esistente. Laddove la politica poteva controllare potere, soldi, assunzioni, gli enti sceglievano di lanciarsi in improbabili avventure imprenditoriali: partecipate, consorzi, società di gestione e così via. Come spesso accade, poi, anche con le migliori intenzioni, i processi della pubblica amministrazione non consentono ai soggetti di restare competitivi sui mercati. E così anche le “buone” farmacie comunali hanno iniziato ad accumulare centinaia di migliaia di euro di debiti, tutti da saldare, rigorosamente con spesa pubblica. Un processo quindi del tutto inutile: un’avventura imprenditoriale finita male, anche perché del tutto difforme da quello che dovrebbe essere il ruolo del pubblico.
Oggi le farmacie in vendita sono otto e, tra qualche mal di pancia anche nella maggioranza, ci si augura che la vendita avvenga con la massima velocità. Resta però ancora un interrogativo. Se, come ritiene Bucci, il compito del Comune non è quello di fornire servizi potenzialmente erogabili dal privato, allora perché non mettere in gara molti altri servizi, come – per esempio – il trasporto pubblico? Perché non vendere anche gli stabilimenti balneari pubblici (sì, abbiamo anche quelli), oggi in gestione a privati ma a totale proprietà pubblica? E perché non accompagnare, con i giusti tempi, anche il settore della cultura, a una progressiva indipendenza dai contributi pubblici? Come esistono farmacie private, che sopravvivono tranquillamente sull mercato, esistono anche stabilimenti balneari e teatri privati che, con grande dignità e forza, garantiscono servizi di alta qualità pur non attingendo a risorse pubbliche (per esempio il Teatro Politeama Genovese).
Insomma, il percorso è quello giusto ma, per coerenza, oggi è il momento di avere ancora più coraggio e decidere, davvero, quale sia il legittimo ruolo dell’ente pubblico nell’erogazione dei servizi. Temere il privato come soggetto “pericoloso” è un approccio miope e in contraddizione con le scelte di consumo che effettuiamo ogni giorno. Certo, il privato non può essere sottoposto a controllo politico, e rinunciare al potere non è un passaggio facile per la classe politica di questo Paese. Ben venga quindi questo primo passo, e aspetteremo tutti gli altri.