“Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie” aveva detto Samuel Johnson nel 1775. Riferita al nazionalismo e al falso patriottismo la dichiarazione del letterato inglese resta sempre valida ma oggi forse coglierebbe più bersagli se attualizzata in: “Il territorio, rifugio prediletto dalle canaglie”. O dai demagoghi e, in genere, da chi pretende di fare del bene prendendo i soldi dalle tasche degli altri. È una considerazione suggerita dalla lettura del libro di Carlotta Scozzari, presentato venerdì sera a Palazzo Ducale.
“Banche in sofferenza” ricostruisce la vicenda che è costata all’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, una condanna in primo grado a otto anni e due mesi di detenzione. La ricostruzione stimola il lettore a domandarsi perché la banca ligure dopo anni di crescita sia andata in crisi. Domanda che non può trovare risposta soltanto nella personalità di Berneschi e nelle perdite causate dalle truffe che gli vengono attribuite.
Insieme ad altri fattori, come gli effetti di una recessione economica del Paese quasi decennale, la parziale fuoriuscita dall’attività core e un’organizzazione da snellire e adeguare alle richieste del mercato, hanno pesato e pesano su Carige i crediti deteriorati, arrivati a un certo momento a superare i sette miliardi di euro. Crediti andati a male in parte anche a causa della gestione, secondo la relazione della Banca d’Italia che ha portato nell’estate del 2013 allo scontro tra Berneschi e il presidente della Fondazione Carige Flavio Repetto e poi all’inchiesta della procura genovese. Gli ispettori della banca centrale rilevavano che Carige avrebbe erogato crediti anomali corrispondenti al 17% del totale, con “crescenti criticità riconducibili sia alle rilevanti disfunzioni negli assetti di governo e nel sistema dei controlli, sia all’elevata esposizione aziendale ai rischi creditizi con ricadute negative sulla redditività e sulla dotazione patrimoniale”.
A proposito di rischi creditizi, vale la pena di ricordare il caso della Festival.
“Sull’esercizio 2004 – si legge nel bilancio della banca relativo a quell’anno – ha pesato il fallimento della Festival Crociere, che ha determinato rettifiche per 82,5 milioni”. Un brutto colpo ma erano ancora tempi d’oro per Carige, nonostante l’economia italiana non andasse affatto bene, e gli effetti del caso Festival vennero completamente riassorbiti nel corso dell’esercizio. Anzi, chiuso il bilancio con un utile netto di oltre 107 milioni (+1,3% rispetto al 2003), il cda deliberò di sottoporre all’asemblea dei soci la distribuzione di un dividendo di 0,0723 euro per azione ordinaria, valore allineato al 2003.
Salvati i dividendi, per Carige il buco Festival perse importanza con il passare del tempo ma la domanda resta: perché venne deciso l’affidamento? Era impossibile capire che fine avrebbe fatto la compagnia riconducibile a Giorgio Poulides? Berneschi a suo tempo aveva spiegato che dalle carte non risultava nulla di inquietante sulla compagnia e, per la verità, Carige non è stata l”unica banca a concedere prestiti a Festival. Una risposta a questa domanda si potrebbe trovare nella fitta trama di pubbliche relazioni intessuta dall’armatore greco-cipriota. E nel concetto di “territorio”. Perché a Genova Festival voleva dire navi da crociera in porto, e quindi indotto nelle forniture e nei servizi, posti di lavoro, consulenze, incarichi. Roba che fa gola a chi più che al profitto bada al territorio, cioè al consenso elettorale.
“La proprietà di Banca Carige non andrà oltre Appennino” – aveva annunciato il 2 febbraio 2007 Flavio Repetto, appena insediato come presidente della Fondazione Carige, maggiore azionista della banca con una quota allora sul 43%, in un incontro con la stampa avvenuto a Genova, al circolo Tunnel. «Le migliaia di persone – così l’Adnkronos quel giorno riportava le parole di Repetto – che oggi attraversano piazza De Ferrari per risolvere i loro problemi finanziari non dovranno domani andare a Milano o a Parigi. Senza Banca Carige la Liguria non sarebbe altro che una striscia di terra». Quanto a Berneschi, andava ringraziato perché «se non ci fosse stato lui Carige in due o tre occasioni sarebbe finita in altre mani, e alcuni di quelli che volevano acquisirla sono spariti essi stessi».
A fine anni Novanta il legislatore aveva emanato norme per indurre le fondazioni bancarie a rinunciare al controllo delle società. Per incentivare la perdita del controllo venne anche previsto dalla legge un regime di neutralità fiscale per le plusvalenze realizzate nella dismissione.
Fondazione Carige (come Fondazione Monte dei Paschi) guidata da Repetto non rinunciò a nulla. Anzi, portò la propria quota nel capitale azionario della banca intorno al 47%. Con il risultato di finire in ginocchio dopo il primo aumento di capitale, non poter contare su altri cespiti oltre ai dividendi Carige e quindi non avere più nulla da erogare sul famoso territorio.
Non solo. Un organismo guidato da un presidente e un consiglio di amministrazione nominati da un consiglio di indirizzo dove sono rappresentati Regione Liguria, Comuni di Genova e di Imperia, Città metropolitana di Genova, Provincia di Imperia, Camere di commercio, diocesi e arcidiocesi, Università, forse è adatto a trovare punti di mediazione tra le diverse componenti e aree del territorio ma non è l’ideale per sorvegliare i conti, valutare le strategie e l’operato dei dirigenti di una banca. D’altra parte il vertice di una banca così controllata dovrà non soltanto puntare alla migliore gestione industriale possibile – specialmente se la banca è quotata in Borsa – ma anche a tenersi buoni i partiti. Due obiettivi che a volte è difficile conciliare.
Oggi la Fondazione detiene l’1,5% delle azioni: quando la banca tornerà in utile (25milioni di euro nel 2018, secondo il piano dell’ad Paolo Fiorentino) le risorse che potrà erogare saranno in proporzione. E Banca Carige è guidata da azionisti verosimilmente più attenti al ritorno dei capitali investiti che agli equilibri del territorio. A noi, spettatori, resta da fare una considerazione: se si vuole, come è giusto, portare moralità nella politica, bisogna in primo luogo circoscriverne l’ambito di attività. Inveire contro i politici e poi affidare loro le aziende, e magari chiedere dei favori ricorda chi condanna la prostituzione in pubblico e se ne serve in privato.