C’è una grande notizia per Genova. Crisi ed emergenza profughi sono finalmente finiti. Non ci sono più. È una novità grande, che aspettavano tutti. Due termini, per la Superba, che possono esser considerati superati, non più attuali. Si sono fusi tra loro e ora si pronunciano semplicemente: normalità. È diventato normale che la città perda quote di lavoro, perché le prospettive di sostegno all’impresa e all’occupazione del territorio non ci sono o quantomeno non si vedono. È diventato normale accogliere persone che arrivano da di là dal mare, sistemandole dove si può, come si può senza nessuna prospettiva di conoscere i limiti del fin quando si può. Potrebbe essere così per anni, perché no? Per quale motivo dovrebbero terminare gli sbarchi?
Nessuno vuol dire o sentirsi dire che questi due “problemi”, che oramai sono diventati la normalità della vita cittadina, non troveranno alcuna soluzione in un tempo determinato. Nessun politico di alcuna provenienza, nessun imprenditore, nessuna istituzione laica o religiosa appare avere un’idea su come sarà la città fra due o tre anni. Non esiste un briciolo di programmazione, di visione prospettica. Ma se ci si ferma un momento a riflettere e a farsi due semplici calcoli appare evidente che il futuro prossimo, senza scelte coraggiose, coraggiosissime, sarà pessimo.
Le ricette sanno di fiele: pensare ai giovani, al loro domani e meno agli anziani sarà obbligatorio. Per ingiusto che sia. Creare nuovi posti di lavoro, dignitosi, cercando il consenso a un nuovo modo di lavorare da parte di chi ha uno stipendio garantito, ma non più un lavoro produttivo. Spiegare senza falsi timori reverenziali a chi arriva in città da terre disperate che esiste l’obbligo di imparare la lingua, le abitudini, le leggi di civile convivenza, gli obblighi e i doveri della terra che per ora li ospita in attesa di farne propri cittadini. Attesa da meritarsi e non eterna. Dire che la città è in rapida disgregazione non è pessimismo. È una realtà per ora evidente e incontrovertibile. Sostenuta da dati veri, amari, che peggiorano. E questa condizione si legge nei dati controversi sull’occupazione.
Dice infatti Bankitalia che sulla base della rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, nel 2015 il numero medio di occupati in Liguria è aumentato del 2,1%, dopo un triennio di calo ininterrotto. Malgrado in regione la crescita occupazionale sia stata più vivace che nell’intera Italia e nel Nord Ovest (0,8%), rispetto al 2008, ultimo anno prima del dispiegarsi degli effetti della crisi, la situazione in Liguria rimane peggiore che nelle aree territoriali di confronto: la perdita di posizioni lavorative è pari a quasi 4 punti percentuali, corrispondenti a 24mila persone. Inoltre, nella valutazione delle forze lavoro non si può certo escludere l’impatto dell’immigrazione sul territorio, per quella che si continua a chiamare “emergenza”, ma che sarebbe ormai più logico interpretare come “condizione sociale acquisita e instabile” in assenza di decisioni politiche.
Nel complesso – dice via Nazionale – i cittadini stranieri in Liguria costituiscono la categoria di persone più deboli. Tra il 2011 e il 2014 la quota di stranieri poveri o esclusi socialmente è passata dal 31,6 al 45,6% (29,8% nel Nord Ovest), superando il valore nazionale, cresciuto dal 35,6 al 37,0%. I dati su occupazione e immigrazione non gestita (sotto i profili sociali e occupazionali) trovano riscontri anche in quelli che sono i dati relativi al reddito disponibile, ai consumi e alla povertà. Qui i dati arrivano fino al 2014, ma difficilmente il 2015 e l’inizio di quest’anno avranno apportato correttivi migliorativi. Infatti tra il 2011 e il 2014 la contrazione dell’attività economica regionale, “più intensa rispetto alle aree territoriali di confronto, e le difficoltà sul mercato del lavoro hanno eroso il potere di acquisto delle famiglie liguri”. Il calo dei consumi ha riguardato tutte le principali tipologie di beni e l’incidenza dei casi di povertà o esclusione sociale ha segnato un deciso incremento. In base agli ultimi dati rilasciati dall’Istat, tra il 2011 e il 2014 il reddito disponibile in termini reali delle famiglie liguri si è ridotto del 6,6%, a fronte di un calo del 5,9% a livello nazionale.”
Così come avvenuto nel complesso del Paese, in termini nominali il calo ha riguardato i redditi da lavoro autonomo e da proprietà, a fronte di un aumento delle prestazioni sociali e degli altri trasferimenti netti. E se “i redditi da lavoro dipendente sono cresciuti leggermente”, certo altrettanto non si può dire del gettito pensionistico, che in Liguria ha una rilevanza percentualmente maggiore di quasi tutte le altre regioni. Ovviamente nel periodo 2011-2014 l’andamento negativo del reddito disponibile si è associato a un calo dei consumi effettuati in regione che, in base ai dati dei conti territoriali dell’Istat, sono scesi del 6,3% (-6,1% in Italia; valori al netto della spesa dei turisti stranieri).
Dunque le varie “vision” politiche e economiche degli ultimi anni non hanno prodotto che questo. Cercare colpe specifiche o personali non serve a nulla e a nessuno. Diceva uno studio abbastanza recente della Banca d’Italia che alcune delle caratteristiche distintive dell’economia regionale, come la contenuta industrializzazione, l’importante ruolo del terziario, in particolare dei servizi ad alta intensità di conoscenza, e la limitata dimensione media delle imprese, si valutano (non in positivo) anche e soprattutto quando il confronto viene esteso alle regioni appartenenti ai principali Paesi dell’Unione europea (Francia, Germania, Spagna e fino a ieri il Regno Unito), simili alla Liguria per dimensione demografica e grado di sviluppo In base ai conti economici territoriali, il peso degli addetti manifatturieri in Liguria è inferiore di quasi 6 punti percentuali al dato mediano delle regioni europee di confronto. Il terziario assorbe quasi l’80% degli addetti liguri (72% per le altre regioni).
La quota di unità locali di media e grande dimensione (con oltre 50 addetti) è meno della metà di quella dei territori europei di confronto. Solo nella manifattura a più alto contenuto tecnologico, nelle attività energetiche e nei servizi finanziari la regione mostra un’incidenza degli stabilimenti con oltre 50 addetti pari o superiore a quella del cluster europeo di riferimento. Ma qui non si investe neanche su queste eccellenze le risposte spettano a impresa e politica. Ma soprattutto ai singoli cittadini che si limitano ad assistere.