Un occhio sul domani, e alternative epocali a oggi non ne vedono. Porto, turismo, servizi. Sarà questa la Genova di domani? Probabilmente sì.
La città industriale dagli anni 50 ai primi anni 2000 di fatto sta svanendo. In questo lungo periodo sono diminuiti di oltre 70 mila unità i colletti, tra quelli blu e quelli bianchi, che lavoravano ascoltando la colonna sonora degli impianti industriali in funzione. Negli stessi anni l’industria pubblica ha ridotto di quasi l’80% i propri dipendenti con coccina genovese; il privato da indotto si è ristretto di quasi il 90%. Impresa “di sostituzione” non ne è nata e la capacità di cambiamento e adattamento della città è stata modestissima.
Eppure di possibilità Genova ne ha avute. Non le ha colte. In altre regioni limitrofe non è andata così. Quando c’era la Fiat, Torino se ne ammantava e ne faceva una bandiera. L’azienda degli Agnelli dava lavoro, prestigio, organizzazione di eventi. Oggi che Torino per il gruppo Fca è diventata, per quanto il principale, poco più di un sito industriale, i torinesi di Fiat hanno già saputo farne un ricordo storico. E la ex capitale sabauda è riuscita a rilanciarsi con l’alta tecnologia e la gestione di servizi nazionali e internazionali di spessore ed alta resa.
Genova centri industriali privati di quelle dimensioni non ne ha mai ospitati. Ha dato casa a grandi gruppi pubblici, che la stanno lentamente lasciando. Ma la Lanterna non è ancora riuscita a trovare alternative forti e credibili (porto escluso) per sostituirne la capacità di are lavoro e benessere. Ragionare al passato? A Genova lo si fa sempre. Quando c’era l’Iri, Finmeccanica, Fincantieri e Italsider rappresentavano degli enormi scolmatoi, dove sversare le (grandi) attività industriali o cantieristiche che economicamente e finanziariamente non ce la facevano più.
Negli anni Settanta e Ottanta, merita ricordarlo, da questi coacervi pubblici, fatte alcune debite eccezioni, venivano prodotte più cassa integrazione e prepensionamenti che prodotti da fatturare.
Allora si poteva, o per pace sociale si doveva, agire così. Quanto del debito pubblico odierno ne porta ricordo? E in quanti se ne sono dimenticati?
Oggi la situazione è diversa. Le politiche sociali ed industriali di allora avevano comunque una Cortina di Ferro e un nemico militare a est da tenere sempre presente. Oggi il concetto di nemico militare si è rarefatto, ma rimane una politica sociale da affrontare. Finmeccanica e Fincantieri sono in Borsa, Italsider, che si chiama Ilva, ha la finanza gestita dai tribunali e giuste costrizioni produttive da affrontare. Genova, questa storia, l’ha vissuta intensamente sulla propria pelle, ma ne ha sofferto e beneficiato in egual misura.
Oggi Finmeccanica e Fincantieri rispondono sui listini anche a soci privati forti e fortissimi e devono fronteggiare un mercato internazionale che le pressa. Nello stesso modo in cui loro pressano il mercato internazionale nei rispettivi settori. Sono competitor forti e temuti. Ma pensare che questi gruppi possano continuare a ragionare come trent’anni fa è impossibile.
Se Fincantieri continua a fare e bene le navi e mostra a tutti un perimetro operativo nitido, Finmeccanica sta facendo delle scelte importanti per restringere il proprio ambito operativo a chi possa identificarne chiaramente l’area di intervento e – magari – decidere di investirci in modo continuativo. E qui Genova entra in argomento. Ansaldo energia ha trovato investitori che credono nel mestiere che svolge. Ansaldo sts e Breda sono finite (con successo) sul mercato, perché a Finmeccanica di treni e segnalamento non interessava più.
La conseguenza? Il ponente genovese vede sgocciolare posti di lavoro, in spezzatini sociali più che industriali.
E dunque, per la prima volta, due società – Fincantieri e Finmeccanica – così a lungo illuminate a sera dalla Lanterna cercano sinergie. Comparto armi e comparto armamento cercano punti di incontro. Messaggi forti, duri, quelli dei management che furono di Stato, che si prestano poco o punto a tavoli tra le parti sociali. E per Genova, questo, non è tutto e non basta. I pochi soldi pubblici, oggi, vanno dove vengono utilizzati per davvero. D’altronde il pensare che i finanziamenti a opere che spesso — pur iniziate — sono rallentate o fermate da diatribe di territorio (Gronda, Erzelli, in parte il Terzo valico) possano restare lì ad aspettare decisioni che non arrivano mai, è follia. Ed è infatti ciò che è avvenuto negli “stralci” delle grandi opere genovesi dalle liste di primo intervento del governo.
La crisi, qui, è cominciata prima che nel resto di Italia e la deindustrializzazione ha aperto varchi sempre più ampi nella forza lavorativa e di conseguenza tra la popolazione residente. I risultati? Si trovano nelle pubblicazioni dell’Unione Europea e meritano una lettura. Per l’Europa della tecnologia, l’area di Utrecht è la più avanzata del continente, poi una sfilza di “province” tedesche. Aree che si autodefiniscono in crisi, perché hanno ridotto la crescita del proprio pil al 2%. Per trovare, nella graduatoria, dove si trovino Genova e la Liguria, bisognerebbe stancarsi gli occhi e consumarsi l’indice a girare le pagina della classifica.
Solo tre anni fa il centro studi di Eurostat, aveva raggruppato le regioni europee più simili per struttura economica e produttiva e aveva annotato la Liguria, insieme al Lazio, alle regioni di Madrid, Berlino, al Vallone belga e a sette regioni francesi nel novero di territori a reddito medio-basso, ma con una marcata specializzazione nei settori a elevata intensità di conoscenza.
Oggi Genova ha perso ulteriori posizioni. Anche perché fino al 2009 la quota regionale di laureati e delle persone con un corso post laurea (18,2%) era già inferiore di 10 punti percentuali rispetto ai competitor. occupati. A oggi, cioè sette anni dopo, lo scarto è aumentato.
Si poteva intervenire? Certo, intervenendo sull’abbandono scolastico (universitario compreso) tra i più alti del nord Italia. Quello sbandieratissimo “sistema sinergico” tra imprese e università non ha evidentemente portato risultati risolutivi. Ci hanno pensato altri. Anche in Italia. La sorpresa, oggi, è che il fattore di eccellenza piemontese, arriva proprio dall’industria tecnologica. Il Piemonte è tra le regioni europee con la più alta quota di occupati nell’industria ad alta e medio alta tecnologia (pur escludendo Fiat). Al primo posto in Italia. E Genova, nel frattempo, sta alla finestra.