In una città sempre più povera come Genova gli oratori sono diventati punti di aggregazione forti e aperti.
Pochissimi seminaristi. Chiese quasi vuote. Tra le panche rari spruzzi di capelli bianchi, identici alla maggior parte di quelli dei sacerdoti che officiano. Rosari per pochi intimi, alla sera.
A Genova la Chiesa e le chiese diventano qualcosa da difendere solo quando sono da mettere in contrapposizione con qualcosa o qualcun altro di diverso. Come per la nazionale di calco o l’inno da infarcire di poropò prima della partita.
Gli altri sono soprattutto gli immigrati. Immigrati non compresi e che non ci capiscono. Forse che non vogliamo capire e che non ci vogliono capire. Ai quali, in generale, diamo solidarietà perché ci viene imposta per legge o per decreto. E che molti di loro non capiscono, perché chissà che cosa si aspettavano prima di salire sul barcone. Chissà cosa gli avevano raccontato.
Eppure, sembra strano, ma quando si parla di solidarietà, aiuto e supporto da parte della Chiesa, a Genova non pochi storcono il naso.
Retaggio, forse, di un passato, dove la sottana dei preti era vista come antitetica ad una politica di progresso. O perché la parrocchia era ritenuta un’opposizione retriva alla politica viva dei punti d’incontro partitici. Sta di fatto che quando c’entra la Chiesa, anche quando solo fatta di popolo, in città si pensa sempre che ci sia sotto qualcosa, minimo una richiesta di un qualche tornaconto anche solo morale.
A Genova gli oratori non sono pieni, ma sono punti di aggregazione forti ed aperti. Gli esempi non mancano. Una città dove i matrimoni (civili e religiosi) sono in costante calo, dove – un esempio – in quartieri “ricchi” come Albaro la metà dei bambini che frequentano il catechismo vivono in famiglie con genitori già separati o in via di separazione. O dove le difficoltà economiche obbligano alla convivenza persone che da tempo non hanno più nulla da dirsi in delegazioni meno abbienti (quasi tutto il Ponente genovese). Il discorso sulla famiglia è diventato complicato, visto che in troppi casi la famiglia è diventata una condizione dalla quale non si vede l’ora di scappare.
Nella città del cardinale Angelo Bagnasco essere e vivere da cristiani è diventato difficile. Difficilissimo. Per troppi ormai porgere l’altra guancia significa porgere generosamente quella degli altri. E più lontani sono, gli altri, meglio è. Essere Cristiani vuol dire essere “testimoni non pusillanimi, non vili, ma umilmente fieri e lietamente coraggiosi” aveva detto con grande forza il Cardinale Bagnasco nell’omelia pasquale in cattedrale, ricordando le centinaia di morti per la fede, in Asia ed Africa. Parlava ai Genovesi, ma da presidente dei vescovi parlava all’Italia tutta. Alle coscienze incapaci di indignarsi, ormai quasi davanti a niente. Parlava di terre dove la povertà regna e la dignità non è nulla.
La povertà, nella dignità tipica di una città come Genova, è quella di chi non riesce ad arrivare davvero a fine mese, dopo aver tagliato all’inverosimile ogni spreco familiare. Questi nuclei familiari sono più di quanti non si creda, ma sono composti da gente che non strilla, ma che quasi si vergogna di non farcela. Crederlo o meno, queste difficoltà sono ritenute più da confessionale che da piazza. Se è vero che ci sono pochi denari per il servizio pubblico alla persona, c’è da dire che volontariato, semplice sostegno privato e solidarietà diffusa, a Genova ed in Liguria, di denaro e tempo ne stiano offrendo in grande quantità. Non esiste, in realtà, un “conto economico” della solidarietà privata, ma – fosse calcolabile – in città sarebbe a cifre rotonde.
È passato il tempo degli indici puntati contro il Comune o la Regione, definiti in passato ciechi alle necessità dei meno abbienti e dei più piccoli. Anche perché, come si è visto, troppo spesso la solidarietà pubblica è andata a sbattere contro un malaffare diffuso e pezzente; basta vedere l’evasione o l’elusione sul ticket sanitario da parte di non aventi diritto o le furbate per ottenere riduzioni immeritate sui pasti scolastici, scuole materne comprese.
Ora, in città, molti si informano sul come fare per poter dare una mano, anche non necessariamente piena di quattrini. Non solo agli immigrati o a chi ha perso il lavoro, ma anche a chi un lavoro ce l’ha, ma non ce la fa a mantenere la propria famiglia per tutto il mese. Senza chiedere nulla in cambio. E chi di loro ha bisogno, aumenta ogni giorno. Uno stare vicino in maniera concreta alle persone, che – oggi – trova applicazione anche a Levante, zona della città che una volta, per la gente, era un centro del dare, non del ricevere, in termini di aiuto economico. Don Vincenzo, a Nervi, Don Corrado a Quinto, Don Valentino a Sturla sono punti di riferimento per chi non ce la fa. E non ce la fa per davvero. Sono davvero tanti i nuovi poveri invisibili e silenziosi. Molti di loro, la maggior parte, sono italiani, alcuni genovesissimi.