Ho letto con interesse l’intervento pubblicato da Luca Borzani su “Repubblica Genova”, che propone Genova come laboratorio di pratiche positive di dialogo con l’Islam. Credo però che, nella situazione di guerra in cui ci troviamo, occorra portare l’analisi della questione fino in fondo. Senza alibi. Sono favorevole a qualsiasi appello al dialogo; e sottoscrivo la bontà degli inviti fatti all’Islam europeo a scendere in piazza contro il terrorismo. C’è un nodo reale, però, che questi condivisibili discorsi eludono. O, peggio, rimuovono. Se non lo affrontiamo con responsabilità e rigore, rischiamo solo di fare salotto in un terreno di guerra: perché questo oggi è l’Europa.
Genova e la Liguria non sono certo fuori da questo terreno, come dimostrano diversi episodi che hanno interessato il nostro territorio. Ma più in generale, Genova e la Liguria si ritrovano al centro di due virtuali direttrici strategiche. Come è stato scritto: “ La Liguria si colloca al centro di due virtuali direttrici strategiche. Una verticale, che connette il Maghreb all’Europa attraverso il Mediterraneo e il porto di Genova, verso nord. Una direttrice orizzontale, che si snoda per l’Anatolia, i Balcani, talvolta risale la Penisola da Bari o Ancona, e prosegue verso il sud della Francia attraverso la Liguria ” (M. Pugliese, L’antiterrorismo in Italia: attività giudiziaria e d’intelligence Un caso di studio: la Liguria come crocevia).
Con questa consapevolezza, se vogliamo proporre Genova come laboratorio di dialogo dobbiamo prima affrontare il nodo della questione. E il nodo è questo. A Genova come in Europa, nonostante gli eccidi del terrorismo islamista, non c’è stata nessuna sollevazione dell’Islam europeo. Abbiamo visto in piazza minoranze coraggiose e illuminate: ma pur sempre minoranze. A Genova ci sono circa 12mila musulmani: a manifestare in piazza De Ferrari dopo gli attentati di Parigi erano circa un centinaio. Pochi, troppo pochi. Bisogna prenderne atto, ed evitare di raccontarsi favole rassicuranti. Ma questo non è un caso. E la questione non si risolve con gli appelli degli intellettuali.
Il punto è che anche intellettuali che fanno appelli contro il terrorismo islamico negano il nodo reale-traumatico del conflitto in corso: negano che si tratti di un conflitto che coinvolge l’Islam. La guerra asimmetrica in corso non usa la religione islamica come semplice pretesto: è piuttosto un conflitto al cuore dell’Islam (contro sciiti e sunniti) e contro l’Occidente democratico. Una certa sottovalutazione, nella cultura di sinistra, della portata religiosa di questo conflitto dipende da un vecchio retaggio culturale: si legge il fenomeno religioso come pura ideologia che nasconde altre ragioni di tipo socio-economico. Da qui tutta una serie di letture, assolutamente riduttive e spesso banali, del terrorismo in chiave di emarginazione sociale.
La realtà è un’altra. Questa guerra non solo ha a che fare con la religione: ma con quella delle tre religioni del Libro, l’Islam, che non ha affrontato il nodo della secolarizzazione. E che dunque ha resistito al processo di democratizzazione. Per una serie di ragioni che si possono far risalire alla “Politica” di Aristotele assente nella mediazione islamica della filosofia greca.
Ora se l’Islam tutto non riconosce – ed è un passaggio traumatico – che ha un problema al proprio interno, che Isis (come già Al-Qaeda) non è un Altro che nulla ha a che fare con l’Islam, un altro che lo minaccia dall’esterno in modo strumentale, ma un Altro inscritto al cuore dell’Islam e che, a partire da qui, ha scatenato una guerra per l’egemonia di matrice wahhabita-salafita (ma un wahhabismo riveduto e corretto), ebbene non accadrà nulla. Possiamo moltiplicare gli appelli, fare i nostri compitini da buoni e rispettabili intellettuali che invitano al dialogo, ma non accadrà nulla.
Una risposta efficace all’Isis (oltre naturalmente a quella militare) passa per la presa di coscienza, da parte dell’Islam moderato, che deve confrontarsi con un processo di secolarizzazione e accettare fino in fondo lo spazio secolarizzato della democrazia liberale in cui il teologico e il politico sono separati. Ora, che l’Islam abbia un problema con la democrazia è qualcosa che ricordava anche un filosofo di sinistra come Derrida che scriveva “oggi al di fuori dell’eccezione araba e islamica c’è sempre meno gente al mondo che osa parlare contro la democrazia”. Se vogliamo dialogare davvero dobbiamo partire da qui.
In questo senso l’ultima cosa che un serio intellettuale dovrebbe fare è coltivare l’illusione rassicurante dell’Islam moderato secondo cui Isis non avrebbe nulla a che fare con l’Islam e dovremmo manifestare tutti insieme contro una barbarie esterna.
Non è così. Noi dobbiamo dare il massimo supporto a chi nell’Islam lavora per una sua riforma interna, per la sua secolarizzazione. Tenendo ben presente che uno dei fattori cruciali, in tutto ciò, è l’emancipazione femminile. Ma non dobbiamo alimentare alibi. Non possiamo più limitarci agli appelli al dialogo. Di fronte alle carneficine non ci devono essere più alibi intellettuali per nessuno.
Questo rischia di regalare i moderati all’Isis? Non credo, ma in ogni caso la questione così è mal posta. E va ribaltata. Dal paradigma paternalistico in cui la democrazia deve preoccuparsi di non far diventare l’altro, che potrebbe radicalizzarsi, un proprio nemico dobbiamo passare al paradigma della responsabilità per cui se l’altro si radicalizza, e vuole fare guerra alla democrazia, ha rotto il patto sociale e viene immediatamente espulso.
Simone Regazzoni