Oggi i giovani in Liguria lo pensano, più di quanto si immagini: beato chi è vecchio. Almeno chi è vecchio può guardare al tempo residuo senza doversi battere con l’incertezza: quella che abbiamo chiamato crisi per otto anni, mentre in realtà era un stravolgimento della vita di tutti i popoli, sta mutando ogni cosa nella vita di tutti.
Che la situazione finanziaria delle famiglie italiane e dunque di quelle liguri non sia facile è evidente.
Appare tuttavia impossibile trovare soluzioni senza imporsi di avere il coraggio di affrontare il problema alla radice. Solo allora la crisi sarà finita e l’Italia, Liguria e Genova ripartiranno. Non prima.
Dal 2000 al 2014 (pubblicazione il Sole 24 ore ripreso da Cgil), il bilancio medio di una famiglia «con i coniugi lavoratori si è impoverito drasticamente, perdendo circa 8.312 euro, a fronte di un guadagno di 3.142 euro per quelle di professionisti e imprenditori. Un rapporto dell’Ocse, che restringe il campo, dice che il reddito annuale della famiglia media italiana è calato di 2.400 euro tra il 2007 e il 2012, quasi il doppio della media della zona euro (1.100 euro). L’Ocse nel rapporto annuale sugli indicatori sociali afferma che la perdita di reddito è legata al “deterioramento del mercato del lavoro, soprattutto per i giovani».
Oltre alle difficoltà del lavoro per i giovani, ad avere un impatto importante sulla vita delle persone è anche la «debole protezione per chi ha problemi lavorativi»: nel 2015, il 17,2% ha dichiarato di non potersi permettere di comprare cibo a sufficienza (contro il 9,5% nel 2007) e il 7,2% di aver rinunciato a far ricorso a delle cure mediche per motivi economici.
Situazioni indubbiamente serie. Ma entrambe le analisi non dicono il perché ci si sia condotti a parlare di parziale mancanza di pane in uno dei Paesi del G8. I motivi, invece, sono molto chiaramente esposti in un libro che fa parte della collana storica della Banca d’Italia. Il titolo “Contributi. L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità ad oggi (a cura di Gianni Toniolo ed. Marsilio), mette tutti (politici e chi li ha eletti) davanti a responsabilità cogenti. Si legge a pagina 341, capitolo «il benessere degli italiani» che «l’aumento della spesa per il welfare ha sostenuto gli ulteriori miglioramenti negli standard di vita avvenuti nel corso degli anni 80, ma al prezzo di una impennata del debito pubblico, passato dal 51% del Pil nel 1982 al 102% nel 1990. Il benessere di quelle generazioni fu barattato con quello delle generazioni future”.
Ecco, le generazioni future, cioè i giovani di oggi, e in parte chi allora aveva vent’anni stanno pagando quel conto. Purtroppo non solo non riescono a rimborsarlo in quota capitale, ma spendono in interessi più di quanto il Paese non spenda nella scuola.
È evidente che nessuno si vorrà riconoscere in quell’Italia spendacciona, folle e un po’ vigliacca, che ha mangiato il futuro dei propri figli e nipoti, ma la verità è questa.
Volendo localizzare il problema a Genova, erano gli anni in cui lo Stato pareggiava i conti in perdita terrificante delle società Iri, pur di non affrontare il problema della rivisitazione del core business e dell’utilizzo del personale. Erano gli anni del “gratis per tutti” in sanità, degli abbonamenti gratuiti o quasi sui bus, dell’evasione fiscale sparata che si “perdonava” con condoni risibili. Quelle migliaia di miliardi di lire, pareggiati con l’emissione di titoli pubblici, oggi bussa alla porta.
E il debito non invecchia mai. È sempre un nemico forte, giovane e implacabile e si deve nutrire e mantenere comunque, inevitabilmente. Quando questo sarà ben chiaro a tutti e tutti decideranno di voler affrontare la verità chiamandosi a correo, l’Italia capirà i sacrifici e li affronterà. Il resto è sotto gli occhi di tutti.
La Liguria e Genova in particolare, hanno saputo e sanno sopportare la crisi meglio degli altri, perché più degli altri dispongono di redditi “certi”. Quelli da pensione innanzitutto. Finché lo Stato regge – e sta reggendo – pochi o tanti che siano i ratei da pensione arriveranno sempre. L’Istat parla chiaro: se la spesa pensionistica si mette in relazione al pil di ciascuna regione, i numeri italiani dicono che l’incidenza regionale più alta sul prodotto interno lordo è in Liguria, pari al 21,25%, seguita da Calabria, 20,84%, e Puglia, 20,78%. Sopra il 20% anche Umbria e Sicilia. E non basta. Se il rapporto più alto fra pensionati e lavoratori attivi è in Calabria, dove ci sono 88,1 pensionati ogni 100 occupati, valori superiori a 80 esistono anche in Molise, Sicilia, Basilicata, Puglia, Calabria e Liguria. La Liguria con un’economia e una socialità che sanno di vecchio socialismo reale dell’ex impero sovietico.
Genova non fa eccezione. Perché, in un territorio dove gran parte del denaro circolante arriva da pensioni e oggi, purtroppo, da gettiti da ammortizzatori sociali, la ricchezza da produzione conta meno che altrove. I soldi, per ora, arrivano in qualche modo dallo Stato. Le aziende non girano, e finché il fatturato sarà precario, lo sarà anche il lavoro.
Il reale concetto di ricchezza o di povertà spesso sfugge a criteri generalizzabili. Ogni persona dà ai termini un significato tarato sulle proprie percezioni, dunque assolutamente variabile. Un ragionamento simile, almeno di recente, viene dedicato anche al termine famiglia. Quando si parla di statistiche economiche o finanziarie, però, i numeri mettono d’accordo le diverse filosofie, perché i numeri “finiti” hanno voce chiara e forte. La Banca d’Italia, che anno dopo anno affina le proprie ricerche e studi sui singoli territorio italiani, pubblicandone i risultati sulle “note” regionali, offre uno spaccato sulla effettiva ricchezza delle famiglie. Interessantissimo quello sui nuclei liguri. Carte per certo sudate e che meritano attenzione.
Il “capitolo”, scritto in cifre, che racconta lo stato dell’arte – con la ovvia media dei polli di Trilussa – dice innanzitutto che le famiglie della Liguria (dal calcolo sono escluse le convivenze) hanno – in termini di ricchezza, un pro capite altissimo. Oltre 244 mila euro per nucleo, contro i 173 mila del nord Ovest ed i 143 medi del resto d’Italia. Una ricchezza fine a se stessa. Che non gira e che si autocompiace, facendo intuire a chi oggi cerca un lavoro o vuol metter su famiglia che parte del proprio futuro giace dove non dovrebbe essere: nel patrimonio di chi ha avuto la fortuna di nascere prima in una Nazione che, per avidità, si è disinteressata di chi sarebbe venuto dopo. E che oggi, senza il minimo pentimento, continua a chiedere tutto senza ammettere alcuna delle proprie responsabilità passate e presenti.