Ragionare sui numeri a tavolino, osservando fuori dalla finestra Genova che cambia. Senza guida apparente. I dati e le percentuali economici e sociali, risultati dei comportamenti e delle azioni di un territorio, fanno ben intendere quanto tutta la politica, e forse questo è un caso di studio a livello mondiale, più che proporre soluzioni – che non potrebbero che essere durissime – preferisca lasciar fare alla natura.
Vista l’età media, si affida alla Grande Falce per risolvere i problemi dei vecchi.
Per quanto riguarda i giovani, vige il poi vedremo.
Significativa la chiusura delle scuole superiori al sabato perché mancava un milione di euro per il riscaldamento. I dati demografici qui si urtano con quelli economici e finanziari come in nessuna altra parte del Paese. Le successioni ereditarie, una dopo l’altra, portano fuori città gran parte dei patrimoni. I figli di quegli anziani, da Genova, se ne sono andati anni fa, perché qui non c’era lavoro.
Forse ci vorrebbero tante piccole idee, infiniti piccoli cambiamenti spontanei che, dal basso, possano invertire il corso degli eventi.
Ma il problema più grande per Genova è che ogni famiglia, ricca o povera che sia, la vera periferia ce l’ha in casa. Costruita dalla disgregazione sociale che la affigge. Dal non avere fiducia nel presente e nessuna certezza in un futuro che nemmeno si immagina più. Poi ci sono le periferie geografiche e logistiche. Il caso di Sampierdarena e relativo entroterra è eclatante. Dirlo forse è sbagliato, ma sembra che negli anni sia stata “scelta” per essere il punto di raccolta di flussi migratori incontrollati, di problematiche al momento apparentemente non risolvibili. Dire che la scelta sia stata freddamente politica magari è di nuovo sbagliato. Ma intorno a quella delegazione di muri e barriere ne sono stati costruiti in abbondanza, ogni mattone e ogni metro di filo spinato sono stati impastati e fabbricati utilizzando disorganizzazione, faciloneria, impreparazione, poca volontà e procrastinazione.
Dire che la città è in rapida disgregazione non è pessimismo. È una realtà per ora evidente e incontrovertibile. Sostenuta da dati veri, amari, che peggiorano. E questa condizione si legge nei dati controversi sull’occupazione. Dice infatti Bankitalia che sulla base della rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, nel 2015 il numero medio di occupati in Liguria è aumentato del 2,1%, dopo un triennio di calo ininterrotto. Malgrado in regione la crescita occupazionale sia stata più vivace che nell’intera Italia e nel Nord Ovest (0,8%), rispetto al 2008, ultimo anno prima del dispiegarsi degli effetti della crisi, la situazione in Liguria rimane peggiore che nelle aree territoriali di confronto: la perdita di posizioni lavorative è pari a quasi 4 punti percentuali, corrispondenti a 24mila persone.
Inoltre, nella valutazione delle forze lavoro non si può certo escludere l’impatto dell’immigrazione sul territorio, per quella che si continua a chiamare “emergenza”, ma che sarebbe ormai più logico interpretare come “condizione sociale acquisita” in assenza di decisioni politiche. Nel complesso – dice via Nazionale – i cittadini stranieri in Liguria costituiscono la categoria di persone più deboli. Tra il 2011 e il 2014 la quota di stranieri poveri o esclusi socialmente è passata dal 31,6 al 45,6% (29,8% nel Nord Ovest), superando il valore nazionale, cresciuto dal 35,6 al 37,0%.
I dati su occupazione e immigrazione non gestita (sotto i profili sociali e occupazionali) trovano riscontri anche in quelli che sono i dati relativi al reddito disponibile, ai consumi e alla povertà. Qui i dati arrivano fino al 2014, ma difficilmente il 2015 e l’inizio di quest’anno avranno apportato correttivi migliorativi. Infatti tra il 2011 e il 2014 la contrazione dell’attività economica regionale, «più intensa rispetto alle aree territoriali di confronto, e le difficoltà sul mercato del lavoro hanno eroso il potere di acquisto delle famiglie liguri».
Il calo dei consumi ha riguardato tutte le principali tipologie di beni e l’incidenza dei casi di povertà o esclusione sociale ha segnato un deciso incremento. In base agli ultimi dati rilasciati dall’Istat, tra il 2011 e il 2014 il reddito disponibile in termini reali delle famiglie liguri si è ridotto del 6,6%, a fronte di un calo del 5,9% a livello nazionale. Così come avvenuto nel complesso del Paese, in termini nominali il calo ha riguardato i redditi da lavoro autonomo e da proprietà, a fronte di un aumento delle prestazioni sociali e degli altri trasferimenti netti. E se i redditi da lavoro dipendente sono cresciuti leggermente, certo altrettanto non si può dire del gettito pensionistico, che in Liguria ha una rilevanza percentualmente maggiore di quasi tutte le altre regioni.
Ovviamente nel periodo 2011-2014 l’andamento negativo del reddito disponibile si è associato a un calo dei consumi effettuati in regione che, in base ai dati dei conti territoriali dell’Istat, sono scesi del 6,3% (-6,1% in Italia; valori al netto della spesa dei turisti stranieri).
Dunque le varie “vision” politiche e economiche degli ultimi anni non hanno prodotto che questo. Cercare colpe specifiche o personali non serve a nulla e a nessuno. Diceva uno studio abbastanza recente della Banca d’Italia che alcune delle caratteristiche distintive dell’economia regionale, come la contenuta industrializzazione, l’importante ruolo del terziario, in particolare dei servizi ad alta intensità di conoscenza, e la limitata dimensione media delle imprese, si valutano (non in positivo) anche e soprattutto quando il confronto viene esteso alle regioni appartenenti ai principali paesi dell’Unione europea (Francia, Germania, Spagna e fino a ieri il Regno Unito), simili alla Liguria per dimensione demografica e grado di sviluppo In base ai conti economici territoriali, il peso degli addetti manifatturieri in Liguria è inferiore di quasi 6 punti percentuali al dato mediano delle regioni europee di confronto. Il terziario assorbe quasi l’80% degli addetti liguri (72% per le altre regioni). La quota di unità locali di media e grande dimensione (con oltre 50 addetti) è meno della metà di quella dei territori europei di confronto. Solo nella manifattura a più alto contenuto tecnologico, nelle attività energetiche e nei servizi finanziari la regione mostra un’incidenza degli stabilimenti con oltre 50 addetti pari o superiore a quella del cluster europeo di riferimento. Ma qui non si investe neanche su queste eccellenze. Le risposte spettano a impresa e politica. Ma soprattutto ai singoli cittadini che si limitano ad assistere.