Una vignetta con la raffigurazione di un piatto di wurstel e crauti con sopra un modellino Volkswagen per rispondere alla vecchia, famosa (e per l’Italia umiliante) copertina di Der Spiegel che mostrava un piatto di spaghetti con sopra la pistola fumante. Una risposta che potrebbe arrivare proprio da Genova, città metropolitana e capoluogo di regione che della crisi dell’auto tanto ha sofferto. In parte “grazie” proprio all’inganno del colosso tedesco dell’automotive.
Ma Genova e la Liguria ci sono ancora e non devono temere nulla per cercare di riprendersi un mercato che è stato loro portato via. Ufficialmente per la crisi. Ma probabilmente anche da inganni da parte di un Nord Europa che, tra l’altro, nell’ultimo quinquennio non ci ha fatto mancare belle lezioni di morale.
Quanto è costata alla Fiat la truffa di Volkswagen? Ma, soprattutto, quanto è costato alla Liguria il progressivo ritiro dal territorio del colosso torinese? Quante fabbriche e quanto personale in cassa integrazione o a casa? Quanto indotto? Il tutto mentre la Germania inondava di quattroruote farlocche il mercato italiano, europeo e mondiale, con fatturati strabilianti. E in più spiegando a tutti che il loro modo di fare fabbrica permetteva premi di rendimento adeguati ai 600 mila dipendenti, persone che godevano di welfare interno all’azienda di tutta avanguardia e di orari di lavoro pieni. Nessun ammortizzatore sociale per nessuno. Altro che i nostri “Cipputi”.
Negli ultimi sette anni l’automotive in Liguria ha perso centinaia di posti. Nel savonese, per esempio, si è avuta la crisi della Bitron, azienda che con grande coraggio ha affrontato la situazione grazie alla produzione diversificata, non limitata solo all’automobile. Poi il guaio della Ap, controllata dalla tedesca Continental, che già nel biennio 2008 – 2009 ha dovuto fare ruotare in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti, che allora erano quasi 500. Un distretto massacrato, quello di Savona che solo poco tempo prima aveva visto la Rolam di Altare (alzacristalli elettrici) delocalizzata dai proprietari canadesi in Polonia e Repubblica Ceca, lasciando senza occupazione i circa 140 dipendenti che erano sopravvissuti a precedenti, durissimi tagli.
Ma in una questione di fiducia infranta da parte dei tedeschi, sono diversi e ravvicinatissimi i ricordi sul “tedesco è meglio” che hanno toccato Genova. Freschissimo quello sulla ventilata richiesta di spostare alcuni reparti di Costa Crociere ad Amburgo.
Quando si parla di progetti e di affari, i dipendenti che appartengono a gruppi di queste dimensioni hanno importanza o demeriti a seconda del momento. Sono “risorse” quando le cose vanno bene e la loro presenza si attaglia al momento contingente, oppure sono “costi” quando si ritiene che – tagliandone il numero dai libri paga – l’azienda possa finanziarsi piani di sviluppo diversificati.
Spostare quattro dipartimenti (Marine Operation, Medical department, Hotel maintenance, Procurement tecnico) e circa 160 persone da Genova ad Amburgo (circa 1.250 chilometri), nel chiuso di un meeting strategico a Miami è un atto ritenuto normale, un tratto di penna su un foglio di strategie aziendali. La logica sta tutta nel concentrare e compattare nella Germania del Nord la parte più succosa della componente europea di Costa, che comprende anche il marchio tedesco Aida Cruises oltre che la Iberocruceros. Costa Crociere è un gruppo davvero grande, numero uno del turismo via mare in Europa, con un capitale sociale di oltre 344 milioni di euro, un giro d’affari che scavalla i 3 miliardi, un colosso che dà lavoro in via diretta a oltre tremila persone, ma che offre lavoro in via indiretta, sulla filiera di supporto alle crociere, complessivamente fino a oltre 15/18 mila persone in momenti anche di crisi, con un giro d’affari di oltre 2 miliardi di euro sul nostro territorio nazionale.
Ma perché questa scelta così improvvisa? Perché Amburgo? E perché non il viaggio contrario, cioè il compattamento su Genova delle strutture amburghesi di Aida? Le risposte, ovviamente le sanno nel quartier generale di Miami, negli Stati Uniti. Ma se si leggono gli studi di comparto sui porti, nella loro più ampia accezione, allora qualcosa si comprende.
Il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, nei mesi scorsi ha rilasciato una pubblicazione dal titolo “Iniziativa di studio della portualità italiana”. Scritto da italiani. Lì si legge (e Carnival legge) come e quanto i porti dell’Europa del nord indirizzino gli investimenti privati verso i propri scali, cercando di dissuadere l’Unione Europea dal finanziare con denari europei i porti del Mediterraneo, ritenuti – per quanto attiene l’Italia – troppo piccoli, privi di servizi stradali, ferroviari ed aeroportuali, troppo costosi e gestiti in maniera poco manageriale. Vanno benissimo le banchine italiane per lo scalo delle navi, per imbarcare e sbarcare i turisti, fare cambusa, ma tutte queste operazioni si possono tranquillamente gestire, centralmente, da punti di controllo nel Northern Range. Con risparmi gestionali e ritenute maggiori competenze.
Infine, il caso Carige. C’è un processo in corso e i giudici sapranno spiegare cosa successe all’interno degli uffici della banca. Resta il fatto che dopo l’esame di maturità della Banca Centrale Europea, alla Carige è stata richiesta una ricapitalizzazione. E poi un’altra e poi vedremo. È stato costruito un mostro poco comprensibile, di certo incompatibile per chi nel proprio risparmio ricerca certezze. Da allora, sotto i ponti, è passato più di un fiume d’acqua. L’azionariato della banca genovese si è rinnovato, potenziato. Per far cassa si è venduto gran parte dei gioielli di famiglia. Poi l’aumento di capitale. Di nuovo. Ai soci, con i piccoli azionisti in testa, è già stato propinato un calice amarissimo. Nelle aspettative della banca, tutto sarebbe pronto, o quasi, per ricondurre l’attività al core business del fare banca, quello storico. Attività che l’istituto genovese ha sempre saputo svolgere bene. A essere sinceri e a rileggere le carte del “giudizio” della Bce di fine anno scorso, tuttavia, c’è davvero di che rammaricarsi, se vogliamo usare un termine da vecchia diplomazia. Un esame deamicisiano, un po’ troppo a favore di chi è ritenuto più serio e buono per la “classe sociale” (leggi popolo) alla quale appartiene. Banche tedesche che hanno a bilancio più derivati che crediti, sono state ritenute sane, forti e affidabili solo perché tedesche. Forse. I banchieri tedeschi, che sciorinano bilanci difficili da leggere anche a chi i bilanci li sa leggere, sono oggi riconosciuti dalla Bce quali esempi da seguire. Persone molto più brave ad alzare il sopracciglio nel dettare la morale che a raccontare la qualità dei propri attivi.
Carige, negli ultimi mesi è stata molto, forse troppo sui giornali economici europei. A ragione, visto i sunti che escono dalle relazioni di ispettorato e magistratura. Ma nella sostanza, confondere stato patrimoniale, rispondenza e codice penale ha poco senso. Perché se Carige, anziché italiana, fosse tedesca, come sarebbe stata valutata? Per certo non sarebbe arrivata all’esame con il fiatone e madida di sudore. Lo Stato l’avrebbe rimpinzata di denaro pubblico, avrebbe sostituito il board in un silenzio da sancta sanctorum e oggi avrebbe brindato al successo del riuscitissimo aumento di capitale. Prima ancora di averlo posto in essere. Invece la banca genovese si è presentata a Francoforte con quanto è riuscita a fare con le proprie sole forze, senza neanche un centesimo dello Stato nel capitale e con un repulisti interno parzialmente ancora in corso, ma durissimo e costante. Risultato? Punita. Ecco dunque che la Germania, rating paese tripla A, se ne fa un baffo delle regole, anche se le statistiche dicono che le banche tedesche hanno bisogno di 14 miliardi per mettersi in regola con Basilea 3, mentre per noi il deficit è calcolato in 9,4 miliardi. Forse il caso Volkswagen farà bene a tutti, in Europa. Spariscono d’un colpo santi tout court e peccatori tout court. La ripresa, che in Liguria inizia a manifestarsi, non avrà che da giovarsi di regole finalmente uguali per tutti.