Non è un caso che la commissione parlamentare per le questioni regionali, l’11 novembre scorso avesse deliberato l’avvio dell’indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali “con particolare riguardo al sistema delle conferenze”, che ha dato vita a un dossier di circa 60 pagine su conferenza Stato-Regioni, conferenza Stato-città e autonomie locali e conferenza unificata.
La riforma costituzionale da poco diventata legge, supera il bicameralismo perfetto e porta il numero dei senatori da 315 a 100: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori nominati dal capo dello Stato per 7 anni. Il nuovo Senato si occuperà di enti locali italiani e anche di Europa. Avrà anche il ruolo di controllore delle politiche pubbliche e di controllo sulla Pubblica Amministrazione. Il legislatore non ha pensato però al rischio che la seconda Camera possa sovrapporsi alle competenze della conferenza Stato-Regioni.
Il disegno di legge approvato non dispone nulla riguardo al cosiddetto “sistema delle conferenze”, che, tra l’altro, non è costituzionalizzato: è stato avviato all’inizio degli anni Ottanta e ha un proprio regolamento dagli anni Novanta. Secondo i servizi studi di Camera e Senato “nel caso di entrata in vigore della riforma, il nuovo bicameralismo differenziato è comunque destinato a determinare quantomeno un riassetto di tale sistema, che ha finora svolto un ruolo significativo, sulla base dei criteri di riparto della legislazione del titolo V, sia sul piano normativo sia su quello amministrativo, costituendo l’unica sede istituzionale di coordinamento tra gli enti costitutivi della Repubblica”.
La questione è tecnica e magari può anche annoiare, ma è rilevante (anche nell’ottica del risparmio sia di soldi pubblici sia di tempo per decidere sui tanti temi che influenzano la vita di tutti i giorni, come il metodo per il riparto del fondo sanitario nazionale), tanto che sono stati diversi gli ordini del giorno presentati durante la discussione nelle Camere: senza nessuna modifica del sistema delle conferenze si rischia di mantenere un doppione che non avrebbe più senso, visto che la conferenza delle Regioni ha oggi tre funzioni: essere la sede dove il governo acquisisce l’avviso delle Regioni sui più importanti atti amministrativi e normativi di interesse regionale; perseguire l’obiettivo di realizzare la leale collaborazione tra amministrazioni centrale e regionali; riunirsi in una apposita sessione comunitaria per la trattazione di tutti gli aspetti della politica comunitaria che sono anche di interesse regionale e provinciale.
Più che un fatto di soldi (anche le conferenze costano, portano già a Roma i rappresentanti delle giunte regionali una o due volte al mese, e con il Senato delle Regioni il rischio è di accrescere i viaggi romani) preoccupa di più il rischio di commistione di ruoli, un possibile pasticcio che potrebbe ricordare quello creato dalla cosiddetta “abolizione” delle Province (enti che avevano competenze dirette sul territorio, come strade, scuole, rifiuti eccetera), una riforma che ha di fatto soltanto abolito le elezioni (quindi la possibilità al cittadino di esprimere un voto) e i gettoni di presenza, mentre tutto il resto è stato spacchettato non senza difficoltà tra Regioni e Comuni.
Capire cosa ne sarà delle tre conferenze sarebbe utile prima dell’ottobre 2016, probabile data del referendum confermativo della riforma costituzionale.
Per approfondimenti: Dossier sistema conferenze