Sette gennaio, commissione straordinaria monotematica del consiglio regionale dedicata all’Ilva, 11 gennaio, manifestazione dei lavoratori dello stabilimento di Cornigliano per ottenere la continuità di reddito garantita dall’accordo di programma.
Finito il panettone di Natale, ora tocca all’amaro.
Che non sarà facile da mandare giù. Perché lavoratori e sindacati hanno tutte le ragioni di pretendere il rispetto di un accordo firmato (nel 2005) da Comune, Regione, prefettura, Autorità Portuale, Ilva stessa e da tutti gli altri possibili organismi coinvolti nella vicenda. “Pacta servanda sunt” è scritto in uno striscione portato dai lavoratori alle manifestazioni, e giustamente. Oltre tutto, l’Ilva è a terra non per scarsa produttività delle maestranze ma perché dalla metà del 2012 è rimasta semiparalizzata da un sequestro della procura tarantina che indagava su presunti reati ambientali della famiglia Riva, proprietaria del gruppo.
Per garantire la continuità del reddito e la sopravvivenza dell’azienda in attesa di tempi migliori, sono necessari i 300 milioni di euro di prestito garantiti dal governo. Per l’Europa, però, questi 300 milioni sono aiuti di Stato, e l’Unione ha già fatto partire una procedura di infrazione contro l’Italia. Per di più, Europa vuol dire anche produttori tedeschi, che non piangerebbero vedendo scomparire un competitore importante come quello italiano.
Associazioni ambientaliste con i loro ricorsi a Bruxelles, magistratura italiana e concorrenti rischiano di preparare per l’acciaio italiano la fine fatta negli anni Ottanta dall’energia nucleare, demonizzata e sparita nel nostro Paese e ora acquistata, a caro prezzo, all’estero.
Che fare? Il governo, per finanziare l’Ilva senza incorrere in sospetti di aiuti di Stato, aveva deciso di utilizzare un fondo proprietà degli stessa Riva depositato nel Jersey e nella disponibilità della banca svizzera Ubs. Perfetto. Peccato che in Svizzera, come in ogni Stato di diritto, non si possano sequestrare beni di un privato senza che questi sia stato condannato definitivamente o senza la salvaguardia del diritto di proprietà in attesa di sentenza definitiva.
I 300 milioni, quindi, restano indispensabili ma sembrano difficile da ottenere. Si potrebbero fare accettare dalle autorità europee presentandoli come un prestito che verrà restituito, non un aiuto di Stato, ma un ponte gettato per favorire l’ingresso di un investitore privato. Un po’ come è successo nel caso Alitalia. Ai sindacati piace la soluzione dei 300 milioni ma non quella dell’ingresso di un privato. Tanto più che nessuna azienda italiana sembra in grado, o disposta, a inghiottire un boccone grosso come l’Ilva e sarà più facile che possa farlo un grande gruppo estero. Non è detto, perché sembra abbiano già rinunciato, oltre agli italiani, anche diversi stranieri. Rimane comunque il colosso anglo-indiano Arcelor Mittal e c’è da augurarsi che non si tiri indietro. I sindacati temono che gli anglo-indiani mettano in discussione gli organici. Ma meglio discutere sugli organici che andare tutti a spasso e comperare acciaio tedesco, o cinese.