Nelle ultime settimane la forte crescita nei prezzi di alcune materie prime (metalli, ma anche petrolio) e semilavorati, ha acceso un importante dibattito di politica economica sul possibile ritorno, nelle economie avanzate, di un fenomeno che sembrava ormai dimenticato, vale a dire l’inflazione.
Prima di passare a esporre i termini del dibattito in corso, alcuni dati possono essere utili. Nella zona Euro, i dati Eurostat di aprile mostrano una crescita annualizzata nell’indice armonizzato dei prezzi al consumo per il mese di marzo dell’1,3%, contro lo 0,9% in febbraio e lo 0,3% della media del 2020. Tale ripresa dell’inflazione sembra essere tuttavia guidata in larga parte dai beni energetici: escludendo questi ultimi, il tasso di crescita dei prezzi si sarebbe fermato a un +1%. Negli Usa, i dati mostrano invece una ripresa un po’ più vivace dell’inflazione, che era pari a 1,2% nel 2020 (fonte Fmi): un indicatore molto utilizzato dagli economisti, che elimina dal paniere i beni i cui prezzi hanno avuto comportamenti estremi, registra un’inflazione tendenziale, in marzo, di circa 1,7% su base annua.
Per quanto riguarda invece le previsioni di inflazione (misurata dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo), la Bce, sostanzialmente in linea con altre organizzazioni, prevede una certa volatilità, ma con tassi compresi tra 1,5% e 2% fino al 2023 per la zona Euro. Invece, per quanto riguarda gli Usa, le previsioni sembrano puntare a una crescita un poco più rapida nel livello dei prezzi, con il Fmi che prevede un tasso di inflazione del 2,3% e 2,4% nel 2021 e nel 2022, rispettivamente (contro 1,4% e 1,2% per l’area Euro). Inoltre, negli Usa le aspettative di inflazione sembrano in leggera crescita: un indicatore basato sui differenziali di rendimento tra titoli a 5 anni indicizzati all’inflazione e titoli simili ma non indicizzati riporta, in questo mese, aspettative implicite di inflazione pari a 2,7% (Federal Reserve Bank of Saint Louis); ancora, una indagine campionaria dell’Università del Michigan, indicatore molto considerato dagli economisti, segnala che i consumatori americani si attendevano, nel mese di marzo, prezzi in crescita del 3,1% nei dodici mesi successivi.
I dati effettivi, nonché le previsioni, sembrano pertanto segnalare una certa accelerazione nel tasso di crescita dei prezzi presenti e futuri, in parte a causa dell’andamento nei prezzi delle materie prime. Tuttavia, al di là delle previsioni di inflazione, tra gli economisti si è aperto, soprattutto negli Usa, un dibattito sulle reali probabilità di persistenza, nonché sulla possibile magnitudine, di questa fiammata inflazionistica.
Da un lato vi è chi ritiene, come Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, che la crescita dell’inflazione sarà solo temporanea, in quanto determinata in larga parte da alcuni colli di bottiglia che hanno determinato una crescita temporanea nei costi di produzione di alcuni beni e servizi.
Vi sono però altre voci più pessimiste, anche sulla scorta di alcune considerazioni di Olivier Blanchard (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale) e Larry Summers (segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton e consigliere economico di Obama), che hanno criticato il recente piano di espansione fiscale del presidente Biden in quanto eccessivamente espansivo. La forte espansione fiscale, nella misura in cui si dovesse materializzare in una significativa espansione della domanda aggregata di beni e servizi, a maggior ragione se accompagnata dalla crescita dei prezzi delle materie prime, in un contesto di forte espansione di alcuni aggregati monetari, avrebbe già generato, come abbiamo visto, una crescita nelle aspettative di inflazione. Come è stato recentemente notato da due noti economisti americani come John Cochrane e Kevin Hasset (si veda qui), ciò potrebbe generare tensioni inflazionistiche non transitorie. Questo avverrebbe se le maggiori aspettative di inflazione dovessero poi essere incorporate nei salari e se lo stimolo fiscale di Biden dovesse davvero rilevarsi eccessivo, punti molto dibattuti.
Alcuni economisti notano come una crescita temporanea superiore al potenziale non dovrebbe generare inflazione, al contrario di quanto accaduto negli anni Settanta, alla luce dei profondi mutamenti che hanno caratterizzato le economie occidentali negli ultimi 50 anni. In primis, in relazione al funzionamento del mercato del lavoro, ora molto più flessibile e con un minore potere contrattuale dei lavoratori, che avrebbero quindi più difficoltà a “trasferire” la maggiore inflazione attesa sui salari monetari; in secundis, per la maggior apertura internazionale dei mercati dei beni, che dovrebbe contribuire a disciplinare i prezzi domestici, sebbene il crescente grado di concentrazione, soprattutto negli Usa, in alcuni mercati dei servizi, potrebbe invece rendere più semplice per le imprese il trasferimento sui prezzi dei maggiori salari. Infine, secondo altri economisti (si veda qui), l’ammontare di risparmio sul quale sarebbero “seduti” i consumatori americani (e in parte europei), in conseguenza della riduzione nei consumi associata alla pandemia, non è altro che l’altra faccia della medaglia dell’esplosione del deficit pubblico.
In altri termini, non è affatto detto che vi sarà un’esplosione nella domanda aggregata di beni e servizi, in quanto i consumatori potrebbero utilizzare tali risparmi per far fronte alle maggiori tasse future che saranno necessarie per stabilizzare i crescenti debiti pubblici. Ma in assenza di una forte espansione della domanda aggregata nei prossimi due anni, non ci si dovrebbe attendere una persistente fiammata inflazionistica. A una dinamica più debole della domanda aggregata rispetto a taluni scenari potrebbe anche contribuire il crescente potere oligopolistico che caratterizza alcuni settori, che tende a essere associato a una minor domanda di beni di investimento, come sempre più studi accademici sembrano rivelare.
Al di là di come la si possa pensare in relazione alle probabilità che una fiammata inflazionistica si materializzi o meno, tutti i commentatori concordano sul fatto che un elemento cruciale per capire cosa succederà all’inflazione nei prossimi anni risiede nel processo di formazione delle aspettative di inflazione degli agenti economici (consumatori, lavoratori, imprese). Al momento, negli Usa e nella zona Euro, le aspettative sembrano essere “ancorate”: in altri termini, gli agenti economici sembrano attendersi che le due banche centrali rispetteranno il loro mandato di garanti della stabilità dei prezzi (sebbene alcuni indicatori per gli Usa sembrino mostrare una certa tensione al riguardo, come potrebbe iniziare a suggerire l’indagine campionaria dell’Università del Michigan). A fronte di aspettative di inflazione ancorate, è improbabile che singoli episodi inflazionistici, molti limitati nel tempo, diventino persistenti. Tuttavia se, a fronte di tassi di inflazione significativamente superiori, per alcuni trimestri consecutivi, al 2%, le banche centrali non agissero alzando i tassi – giustificando la mancata stretta monetaria con una crescita economica ancora troppo anemica o per evitare problemi ai governi nel rifinanziamento del debito pubblico in conseguenza della maggior spesa per interessi associata alla crescita dei tassi – allora potremmo assistere a un “cambiamento di regime” nel processo di formazione delle aspettative, che potrebbero “disancorarsi”. Il risultato potrebbe essere, come abbiamo visto sopra, una crescita dei salari monetari (che incorporerebbero le più alte aspettative di inflazione), quindi una maggior crescita nel livello dei prezzi, e così via, in una pericolosa spirale prezzi-salari.
Quanto è probabile uno scenario di questo tipo? A mio avviso non molto, in primis perché al momento non sembrano esservi, almeno per la zona Euro, forti indicazioni di una fiammata inflazionistica superiore al 2% nei prossimi due anni; secondariamente, il fenomeno della spirale prezzi-salari dovrebbe svolgersi in un mercato del lavoro profondamente diverso rispetto agli anni Settanta; in terzo luogo, il mercato del lavoro sarà ancora debole nei prossimi trimestri. Infine, nella zona euro le aspettative erano sostanzialmente ancorate anche negli anni scorsi nella fase in cui l’inflazione era leggermente sotto il target, quindi ci si può aspettare che anche leggere deviazioni dell’inflazione attuale rispetto all’obiettivo della Bce (inflazione compresa tra 0 e 2%) non siano sufficienti a disancorare le aspettative.
Se i segnali di un disancoramento delle aspettative dovessero poi iniziare a manifestarsi, il mandato della Bce è tuttavia chiaro, ed è quello di garantire la stabilità dei prezzi. Se dovesse rispettarlo, come è molto probabile che succeda, tenuto conto delle pressioni dei paesi nordici, che già ora stanno sperimentando tassi di inflazione superiori alla media della zona Euro, allora per l’economia italiana potrebbero sorgere dei problemi, legati alla crescita della spesa per interessi, e quindi a una nuova crescita dello spread.
È pertanto di vitale importanza saper sfruttare al meglio l’opportunità offerta dal programma Next Generation EU e in particolare dalle riforme (giustizia, funzionamento della pubblica amministrazione, concorrenza, formazione, digitalizzazione) che dovrebbero essere associate, per aumentare in modo permanente il potenziale di crescita dell’economia italiana. Una maggior crescita, sostenibile nel medio periodo, consentirebbe di gestire la stabilizzazione e la progressiva riduzione del rapporto debito-Pil in modo più semplice e quindi anche più rassicurante, sia per i mercati finanziari che per i cittadini, le imprese e i lavoratori italiani.
(Maurizio Conti)