Aumenta l’aspettativa di vita e gli assegni previdenziali vengono ritoccati al ribasso. Dal primo di gennaio sono lievemente diminuiti per effetto della revisione dei coefficienti per il calcolo delle pensioni con quote contributive. Lo aveva anticipato il decreto del ministero del Lavoro del 22 giugno 2015 ufficializzato in Gazzetta Ufficiale.
Dunque la riforma Dini, poi quella Damiano, lo scalone Maroni e buona ultima quella Fornero iniziano a dispiegare per intero i propri effetti.
E così, come si legge sul dossier del Sole 24 Ore, “un lavoratore medio, con meno di 18 anni di contributi al 1995, che accede quest’anno alla pensione di vecchiaia a 66 anni 3 mesi, a fronte di un montante contributivo di 200mila euro, avrà una rendita maggiore di 18 euro lordi mensili rispetto a chi andrà in pensione con gli stessi requisiti il prossimo anno”. È legge. Ma a calcolare gli importi delle pensioni contribuisce in modo determinante un parametro base: l’aspettativa di vita. In Italia è molto alta. Tra le prime dieci del mondo. Infatti l’aspettativa media alla nascita è di 82,03 anni; 79,40 per gli uomini, 84,82 per le donne. E su queste “speranze” l’Inps spalma l’erogazione prevista di ogni singola pensione.
Certo il sistema contributivo cambierà non di poco l’importo dell’assegno.
Pur tuttavia, il sistema di calcolo parrebbe contenere un qualcosa che potrebbe mutare, parecchio, il concetto di aspettativa di vita. A ieri questa veniva determinato dal fatto che l’età del pensionamento era fissato a 55 anni e 35 anni di contributi. Un’età e una consunzione fisica e mentale considerate giuste per poter vivere ancora la terza età, almeno una parte di essa, in salute e dunque con la possibilità di poter beneficiare ancora in forma del proprio tempo. Il ritiro dal lavoro a 62, 66 o 67 anni e tre mesi, di quanto andrà ad inficiare — con i ritmi odierni — la possibilità di “andare in pensione” in condizioni decenti di salute? E l’aspettativa di vita, per chi ha lavorato per 10-12 anni di più dei “fortunati” percettori odierni, resterà identica? E la qualità della vita residua di quanto sarà inferiore rispetto a quella goduta da chi è andato in pensione (o in prepensionamento) nel 2000? Il rapporto tra aspettativa di vita e qualità della vita, ammesso si possa calcolare statisticamente o attualizzare, probabilmente darebbe risposte infauste per i pensionati di domani. Dunque il discorso pensioni, sulla Liguria anziana di oggi, si staglia sopra ogni altro discorso produttivo.
L’Istat, d’altra parte, parla chiaro: se la spesa pensionistica si mette in relazione al Pil di ciascuna regione, i numeri italiani dicono che l’incidenza regionale più alta sul prodotto interno lordo è in Liguria, pari al 21,25%, seguita da Calabria, 20,84%, e Puglia, 20,78%. Sopra il 20% anche Umbria e Sicilia. I bilanci sociali, tuttavia, sono cosa ben diversa dai bilanci economico-patrimoniali delle aziende. Vanno innanzitutto letti diversamente.
I dati sulla distribuzione delle pensioni in Italia appena offerti all’analisi, porgono un senso matematicamente netto. Ma la matematica non può tenere presenti le mutazioni produttive e di godimento della rendita pensionistica di uno specifico territorio. Un esempio per tutti. Argomento: rapporto tra il numero di pensionati e occupati e tra spesa pensionistica e contributi versati dai lavoratori nelle province. Sino a qualche anno fa la provincia più «squilibrata» d’ Italia risultava quella della Spezia, che aveva 149,3 pensioni ogni 100 occupati. A seguire Benevento (143,6 ogni 100 occupati) e Reggio Calabria (141,4). La realtà territoriale più virtuosa, invece, risultava Bolzano con solo 73,3 assegni pensionistici erogati ogni 100 occupati. Per certo la percentuale non teneva presente, come non doveva, che lo spezzino, solo che tra Oto Melara, Fincantieri, Arsenale, aveva perso oltre 1.700 posti di lavoro e che l’occupazione giovanile trovava sfogo fuori provincia. Mentre i pensionati sono stanziali. Poi l’età media della Regione. La più alta d’Italia, rimpinguata com’è dai flussi di anziani che qui decidono di venire a vivere. Quindi i numeri sui pensionati in Liguria vanno letti in un’ottica diversa da quelle di regioni come il Piemonte o la Sicilia.
Torniamo al rapporto sul rapporto età di pensionamento-pensione. La recentissima valutazione dell’Inps sul futuro delle rendite vitalizie afferma che per i nati negli anni Ottanta la pensione apparirà tra i 70 e i 75 anni e sarà ridotta del 25% rispetto a quelle erogate oggi, peraltro già ben limate. Si resta esterrefatti davanti a questi studi, quando vengono pubblicati. Si cercano soluzioni. Ma la correzione dei dati attuariali sembrerebbe – almeno al momento – impossibile. Il Paese, che solo oggi offre dati limitatissimi di crescita, negli ultimi lustri ha sempre perso in margini di sviluppo. Per poter ovviare alle future pensioni contate in spiccioli ci sarebbe bisogno di un robusto rinvigorimento dell’economia, valutabile in almeno l’1% all’anno per molti anni. Una contemporanea moltiplicazione di pani e pesci e trasformazione di acqua in vino. Dunque che fare?
Serve nuovo lavoro, innanzitutto. Qualificato e duraturo, sostenuto da una crescita armonica dell’economia. Senza strappi. Ed in tal senso qualcosa si vede. Lo dice l’Istat. In Liguria nel primo trimestre 2015 si è registrato un aumento tendenziale del numero di occupati, che da 588mila sono passati a 607mila (+3,2% pari a 19mila unità), con una grande novità: l’incremento è interamente ascrivibile alla componente femminile mentre resta invariata quella maschile. Un dato davvero sorprendente e forse unico per il mercato del lavoro in Liguria. Il tasso di disoccupazione femminile è sceso al di sotto di quello maschile passando dal 14,1% al 9,4%. E c’è dell’altro: il numero di persone in cerca di primo impiego, circa 14 mila unità, è calato del 36,4% rispetto al 1° trimestre 2014. E per risparmiare sugli assegni di oggi si stanno applicando criteri che non fanno felice nessuno, ma che forse, porteranno a risparmi spendibili per gli anziani di dopodomani.