C’è anche un po’ di Liguria tra le aziende italiane che hanno messo insieme le forze per raddrizzare la Costa Concordia, naufragata a fianco dell’isola del Giglio il 13 gennaio 2012. Il pool di imprese coinvolte nelle operazioni abbraccia i più svariati settori, dall’ingegneria alla logistica, dalla cantieristica ai lavori offshore. Tutte realtà coordinate dal consorzio italoamericano Titan-Micoperi, che il 21 aprile 2012 si è aggiudicato la gara indetta da Costa Crociere per il raddrizzamento del relitto: tra i sei concorrenti, il progetto vincitore è stato quello firmato da Titan Salvage, società statunitense del Gruppo Crowley, leader nel settore del recupero dei relitti, e dall’italiana Micoperi, che ha lunga esperienza nel campo dei lavori offshore. «Il raddrizzamento della Concordia – spiega Franco Porcellacchia, direttore del progetto parbuckling – ha rappresentato la più grande opera di recupero navale nella storia, sia per il contesto in cui esso è collocato, sia per le dimensioni del relitto: si parla di circa 300 metri di lunghezza e 114 mila tonnellate di stazza lorda».
Tra le “liguri” coinvolte nel progetto Titan-Micoperi ci sono e Fincantieri, entrambe con sedi anche nel capoluogo ligure, le genovesi Rina Services e D’Appolonia, e la spezzina Nuova Olmec. Necessaria anche, a livello di controllo ambientale, la collaborazione con l’Università di Genova. A queste realtà si sono aggiunte molte altre competenze “made in Italy”, tra cui la friulana Cimolai, le romagnole Trevi e Rosetti e la pisana Gas&Heat. Tra realizzazione del progetto, lavori e operazioni sul campo (durate 16 ore), la crociera è stata “rimessa in piedi” oltre un anno e mezzo dopo il naufragio.
IDRODINAMICA: LE QUATTRO FASI DEL RINA
Già nelle prime ore successive all’incidente, l’intervento di Rina Services, società genovese di classificazione navale, certificazione, collaudo e ispezione, è stato indispensabile. Occorreva sapere se e per quanto tempo la Concordia fosse rimasta incagliata sul pendio. «Dovevamo capire – dice Paolo Salza, direttore tecnico di Rina Services – quali sarebbero stati gli effetti del moto ondoso sulla nave. In pratica, avremmo dovuto svolgere, in poco tempo e con poche informazioni, complessi calcoli di idrodinamica: il tutto è stato completato nel giro di due settimane. Si è trattato di un lavoro necessario per dare il via alle prime operazioni sul posto, tra cui la principale, quella di rimozione del carburante».
Il cosiddetto “debunkering”, che, tra 12 febbraio e 24 marzo 2012, ha consentito di aspirare, senza alcuno sversamento in mare, oltre 2 mila metri cubi di idrocarburi. Un secondo intervento ha riguardato la definizione dei dati per il bando di gara che Costa ha indetto in primavera e che è stato vinto dal progetto Titan-Micoperi. Poi, il parbuckling: «Durante il raddrizzamento – precisa Salza – abbiamo ancora una volta svolto mansioni di livello ingegneristico. In questo caso abbiamo valutato ancora gli effetti del moto ondoso, ma questa volta sulla Concordia raddrizzata: era necessario che la nave, una volta stabile sulla piattaforma artificiale, non solo resistesse alle onde del mare, ma fosse anche messa in sicurezza per eseguire le operazioni successive». «Posizione verticale – aggiunge Porcellacchia – i tecnici sono finalmente in grado di acquisire elementi precisi sulle condizioni del lato di dritta, rimasto sommerso fino a poche settimane fa: è un requisito indispensabile per poter procedere con le fasi successive». Rina resta quindi attivo per la quarta fase, quella di rigalleggiamento e trasferimento: «Ora che i nostri ingegneri, circa una decina quelli che hanno seguito le operazioni sulla Concordia, conoscono l’entità completa del danno, possono portare avanti gli studi e le valutazioni per trasferire il relitto in piena sicurezza», dice Salza.
OCCHIO ALL’AMBIENTE: UNIGE E D’APPOLONIA
«Già durante la fase di gara – racconta Paola Rentocchini, manager di D’Appolonia nell’area Business line environment – Costa Crociere ha considerato come fattori prioritari la minimizzazione degli impatti ambientali, degli effetti sulla vita ordinaria sull’isola del Giglio e sulle condizioni di sicurezza degli operatori». Ambiente dunque in prima linea: prima, durante e dopo le operazioni. E capofila, in questo ambito, è stata l’università: la Sapienza di Roma con il supporto dell’Università degli Studi di Genova. A ciò si è aggiunta anche l’assistenza di D’Appolonia, attiva a Genova fin dai primi anni Ottanta: dopo aver supportato Costa Crociere nella stesura di un piano di gestione dei rifiuti fuoriusciti dal relitto, l’azienda ha redatto lo studio di impatto ambientale, indispensabile per poter procedere con i lavori. «Fin da giugno 2012 – dice Linda Volpi, manager nell’unità Environmental studies and permitting di D’Appolonia – abbiamo aiutato Costa nella gestione dei requisiti richiesti dagli organi di controllo, come l’Osservatorio di monitoraggio, che è stato istituito apposta per assicurare che fossero rispettate le modalità e le prescrizioni delle autorità competenti, anche in campo ambientale». Al via quindi, già prima delle operazioni di rimozione, a campagne di monitoraggio ambientale sulla qualità dell’aria, del rumore, della flora e della fauna, ma anche sullo stato di consistenza degli edifici e delle vibrazioni.
Indagini e analisi ambientali messe a punto proprio dalle università: da una parte, La Sapienza, con 10 mila analisi e 500 campagne di monitoraggio dei cetacei, e, dall’altra, l’Ateneo genovese (il Distav, in particolare, Dipartimento di scienze della terra, dell’ambiente e della vita), con 12 mila analisi, oltre 1,3 milioni di dati raccolti sullo stato delle correnti e 48 campioni. «Il lavoro è stato fatto in un team multidisciplinare – sottolinea Rentocchini – composto da esperti ambientali, ingegneri civili, chimici, esperti di sicurezza e rischio, ma anche di modellisti ed esperti in acustica e tecnici di laboratorio». E, per finire, «un gruppo di dieci biologi che sorveglia sul rispetto dell’ambiente marino circostante, – dice Porcellacchia – priorità di questo progetto insieme alla sicurezza delle operazioni e alla protezione del contesto socio-economico dell’isola». In particolare, i biologi coinvolti provengono proprio dagli Atenei di Genova e Roma. Altro intervento di valutazione da parte di D’Appolonia, oltre a quello sulla gestione dei sedimenti fini, che sono poi stati rimossi prima della rotazione, è stato il piano di gestione delle acque interne al relitto, come spiega Volpi: «Anche con simulazioni modellistiche, occorreva prevedere e controllare i possibili impatti derivanti dal rilascio delle acque potenzialmente contaminate o sversamenti di prodotti contenuti all’interno del relitto durante la fase di raddrizzamento». Piano che sarà sottoposto a successivi aggiornamenti per la fase di rigalleggiamento.
LOGISTICA E OFFSHORE: FAGIOLI E NUOVA OLMEC
Quella che, forse, è stata maggiormente coinvolta nelle operazioni (e non solo quelle di parbuckling) è stata l’emiliana Fagioli. Realtà nata nel 1955 come azienda di trasporti e che oggi ha ampliato il proprio business con sedi in tutto il mondo, tra cui anche a Genova. La commessa, che, secondo quanto pubblica il Sole24Ore.com, sfiora i 20 milioni di euro, comprende lavori in diversi settori operativi: «Fagioli ha fornito le proprie competenze in molte fasi delle operazioni – spiega Paolo Cremonini, chief operating officer di Fagioli spa – a partire dallo studio ingegneristico e dalle operazioni di logistica: l’azienda, già durante l’estate 2012, ha portato sul posto i galleggianti, le piattaforme e altri elementi necessari alle fasi successive».
Un’operazione che ha scongiurato il pericolo di affondamento è stata la messa in sicurezza della nave: «Si è tradotta nell’ancoraggio del relitto con cavi e martinetti, i cosiddetti strand jack, legati a loro volta a quattro blocchi di ferro fissati al fondale marino. In questo modo si è creato un sistema di stabilizzazione che ha reso immobile la nave». A ciò è seguita la fase più delicata, secondo Porcellacchia, quella cioè del disincaglio: «Il relitto, che per raggiungere la posizione verticale ha dovuto ruotare di 65 gradi rispetto a quella iniziale, poggiava su due speroni di roccia che l’avevano in parte penetrato e dai quali lo scafo ha dovuto disincagliarsi in modo lento e con l’applicazione graduale dei carichi esercitati da martinetti idraulici a recupero di fune». Un quarto intervento, il secondo per Fagioli sull’isola del Giglio, è stato quello di ancorare al fondale altri sette blocchi (arrivando così a un totale di undici), preparando la Concordia alla fase di ancoraggio vera e propria. È stata la spezzina Nuova Olmec ad aggiudicarsi la fornitura degli “anchor block”, per 5 milioni di euro (secondo quanto pubblica dal Sole24Ore.com). Nuova Olmec, nata nella seconda metà degli anni Quaranta, è specializzata proprio nella realizzazione di piattaforme offshore e onshore, nel cosiddetto “drilling” (perforazione e palificazione) e nella lavorazione del metallo. I blocchi d’acciaio firmati dall’azienda spezzina hanno sostenuto le torrette di ritenuta ancorate al fondale e indispensabili per il raddrizzamento, come descrive Cremonini: «Su ciascun blocco è stata fissata una torre tralicciata, sopra le quali sono stati posti martinetti da 600 tonnellate con fasci di cavi di ferro fatti scorrere in verticale, paralleli alla nave, fino a entrare in acqua. Da qui, le funi sono state ancorate al blocco, fatte passare sotto la Concordia e ancorate al lato sinistro della nave». Ancoraggio che, durante il parbuckling, ha permesso alla chiglia di ruotare sul fondo marino, mantenendo però un equilibrio tale da impedire alla nave di appoggiarsi sul lato opposto o di scivolare verso il mare aperto. Anche lo stesso sistema di forze per la rotazione della Concordia è opera di Fagioli: «Dallo studio fino alla costruzione: 36 martinetti idraulici, con forza massima di 13.800 tonnellate, sono stati fissati sopra i galleggianti di acciaio e ancorati alla piattaforma marina con delle funi. Di conseguenza, accorciando le funi, la nave veniva tirata e quindi raddrizzata». A livello di personale, sono stati coinvolti circa una cinquantina di dipendenti, tra cui quelli della sede genovese: «Persone che hanno dato il proprio contributo, fornendo le competenze necessarie, soprattutto a livello ingegneristico ed esecutivo». Compreso nel team Fagioli anche il personale operativo al Giglio.
QUEI “CASSONI” DI FINCANTIERI
Nei cantieri di Genova, Palermo, Napoli e Ancona, in otto mesi, sono stati costruiti i famosi “cassoni” (sponson) posizionati sul fianco visibile del relitto, insieme ai due “blister tank” fissati a prua, necessari per rimettere in asse la nave. Il valore della commessa di Fincantieri, la più consistente dell’intera operazione, è stato di 60 milioni di euro (dato Sole24Ore.com). Al momento sono undici gli sponson posizionati sul fianco sinistro del relitto: «Una volta completata la fase di valutazione tecnica della fiancata emersa, ed effettuati gli interventi di ripristino e riparazione necessari, si procederà alla sistemazione dei restanti cassoni – precisa Porcellacchia – in particolare, quattro mancanti sulla fiancata sinistra, per arrivare a un totale di quindici, e dieci sul lato di dritta. Completate queste installazioni, per l’ancoraggio degli ultimi cinque sul lato dritto sarà probabilmente necessario procedere al rigalleggiamento parziale del relitto, con uno spostamento della nave verso il lato mare. Si tratta di un’operazione molto delicata e sensibile alle condizioni atmosferiche e che quindi non potrà essere effettuata nel prossimo inverno». Ciascuno sponson raggiunge le 400 tonnellate di peso, è lungo 30 metri, largo 10 e alto 12. 11.500 tonnellate il peso complessivo dei materiali utilizzati per l’intera fornitura di Fincantieri: «La loro funzione è stata indispensabile in fase di rotazione – spiega Franco Porcellacchia – in particolare nel momento in cui la tensione esercitata con i martinetti è diminuita gradualmente fino a quando le valvole dei cassoni installati sul lato sinistro hanno raggiunto il livello del mare, permettendo così all’acqua di entrare. A questo stadio il relitto aveva ruotato di 24 gradi rispetto alla posizione iniziale». Il processo è poi proseguito proprio grazie all’immissione di acqua nei cassoni: «Il peso dell’acqua ha esercitato una forza verso il basso consentendo al relitto di poggiarsi sulle sei piattaforme subacquee d’acciaio che hanno creato una base stabile a circa 30 metri di profondità». Proprio le sei piattaforme, insieme ai sacchi di malta cementizia (grout bag) posizionati nel vuoto tra i due speroni di roccia, sono state fondamentali: non solo per la riuscita dei lavori, ma anche per l’intero svolgimento delle operazioni. Occorreva che il relitto, accasciato su un pendio, ruotasse e successivamente poggiasse su un fondo piano.