La Liguria, anno dopo anno, appare economicamente sempre più stanca, svogliata.
Magari un giorno potrebbe scegliere una strada opposta a quella del Regno Unito: a loro la Brexit, qui il Limonte, cioè la fusione tra Liguria e Piemonte.
Le “note” sull’economia della Liguria, appena pubblicate dalla sede di Genova della Banca d’Italia, aprono a riflessioni strutturali sul territorio, come mai in passato. Gli investimenti delle aziende sono minimi, nonostante l’abbondanza di liquidità a buon prezzo messa a disposizione dal sistema finanziario. Il grado di utilizzo degli impianti è contenuto e il generale aumento del fatturato delle aziende – specie quelle più dimensionate – crea utili di poco spessore, nonostante i costi da tempo mai così bassi di energia e carburante, oltre che dei noli per l’importazione e l’esportazione.
Le condizioni di mercato non sono facili per nessuno, si dirà. Ed è vero. Ma per guardare avanti bisogna guardare alle percentuali del passato. E fare confronti, tra chi ha scelto di allontanarsi dall’Unione Europea e chi potrebbe salvarsi con una integrazione, come potrebbe essere tra l’ex territorio regionale della Superba e il vicino Piemonte.
Vediamo i numeri. Progressiva discesa dell’incidenza del fatturato industriale sul territorio da oltre il 65% ad uno scarso 19%. Sostanziale uscita dell’impresa pubblica dalla regione. Riduzione della cantieristica, dimagrimento all’osso dell’industria pesante. Fatturato dei servizi arrivato oltre l’80%. E tutto in Liguria, in silenzio, senza bisogno della signora Thatcher. Dati che vengono in mente con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Proprio quel Regno Unito che la Dama di Ferro aveva portato – con la forza – a un sistema paese così simile, nelle percentuali di fatturato, a quello della Liguria. Servizi e commercio, il resto non conta. Non ci voleva la Brexit, innanzitutto per loro, si dirà. Ma è andata così.
Per Genova l’addio britannico all’Europa potrebbe rappresentare uno spaccato sul proprio futuro, un qualcosa da studiare con la massima attenzione, per evitare che tra qualche anno diventi un deja vù. Se si dice che Genova (e quella che fu la sua Repubblica) è la città più inglese d’Italia, una ragione c’è. La storia della grandezza britannica ha molto in comune con quella della Lanterna. Territori piccoli e poveri, dapprima votati al mare, poi al commercio e alla finanza. Poca industria autoctona, ma grande capacità di trovare mercati a chi sapeva solo produrre e non disponeva di una rete commerciale e di una marineria all’altezza. Gente, genovesi e inglesi, sempre e solo alla ricerca di nuove piazze per vendere le merci degli altri. Guadagnandoci su. Flotte veloci e organizzate, capitani coraggiosi e alle spalle sistemi bancari e finanziari fortissimi, con un senso del rischio radicato e sempre pronti a saper mettere sul tavolo i propri soldi per cercarne la moltiplicazione. Gente decisa, con pochi scrupoli. I liguri erano talmente temuti sui mari, che l’Inghilterra, per difendere i propri traffici, batteva bandiera genovese.
Poi le storie si sono divise. Genova si è fermata tra Sarzana e Ventimiglia. L’Inghilterra ha conquistato il mondo. Genova si è rinchiusa in se stessa, ha abbandonato il commercio e si è data all’industria. Gli inglesi, con gli identici metodi del passato, hanno sottomesso una bella parte del pianeta.
Però un comune denominatore ancora oggi è rimasto: finanza e commercio.
In Liguria il senso di cumulare per reinvestire che viene dal passato, si limita oggi al solo cumulare. Il commercio antico s’è ridotto al lavoro di transito in porto, sempre facendo ben attenzione a non lasciar crescere lo scalo. Qui gli spazi per i giovani sono molto limitati e le decisioni, anche politiche, passano per le mani degli anziani. Anche e solo perché i capelli bianchi sovrastano numericamente quelli neri. Per il rilancio?
“Ci vorrebbe un miracolo”, ha detto il cardinale Angelo Bagnasco. E ha ragione. Perché guardandola con attenzione, ci si potrebbe domandare se la Liguria non stia finendo, come entità politica, economica e finanziaria, rischiando di ridursi a una mera espressione geografica. I dati effettivi che produce direbbero di sì. La regione non sta producendo futuro e sta consumando le proprie riserve. E questo lo dice anche un argomento caro alle genti che vivono sul territorio dell’ex repubblica di Genova: la ricchezza fatta di accumulo di denaro e muri. Che ben si legge nelle ultime note di Bankitalia.
Nel 2015 i depositi bancari detenuti dalle famiglie e dalle imprese residenti in regione, che assieme ai titoli a custodia costituiscono la principale componente del risparmio finanziario, sono rimasti stazionari (erano invece cresciuti del 5,3% nel 2014). I depositi detenuti dalle sole famiglie consumatrici, che rappresentano oltre l’80% del totale, hanno rallentato all’1,6 per cento. In un contesto in cui i tassi di interesse sulla raccolta (soprattutto conti correnti) sono scesi a livelli minimi, si è anche accentuato il calo dei depositi vincolati o a scadenza protratta. Certo il mercato non è stato brillante lo scorso anno, ed i prezzi indicati da Banca d’Italia sono riportati a valore corrente e non d’acquisto. Ma le galoppate dei tesori dei liguri sembrerebbero scese ben sotto il livello del trotto. Infatti il valore, ai prezzi di mercato, dei titoli delle famiglie consumatrici in custodia presso le banche si è ridotto del 4,8% Ma dove si investe? Le quote dei fondi hanno continuato ad aumentare a ritmi sostenuti (oltre il 10%). La riduzione dei titoli di Stato si è fatta più marcata (-15,7%), in presenza di rendimenti negativi per alcune delle nuove emissioni della seconda metà dell’anno.
Alla fine delle valutazioni il dato che emerge è questo: tra il 2005 e il 2014 il valore delle attività finanziarie detenute dalle famiglie liguri (ricchezza finanziaria lorda) è passato da 134 a 129 miliardi di euro, con una flessione complessiva del 3,8%. Alla fine del 2014 la ricchezza finanziaria lorda pro capite era di circa 81.000 euro, un valore oggi inferiore rispetto alla media del Nord Ovest, per quanto ancora superiore a quella italiana.
Dopo il picco raggiunto nel 2006 – dice Bankitalia – la ricchezza finanziaria lorda pro capite ha continuato a diminuire fino al 2011, per poi risalire nel periodo successivo. Ma torniamo alla struttura del risparmio ligure odierno. Alla fine del 2014 oltre il 31% della ricchezza lorda delle famiglie risultava costituito da prodotti del risparmio gestito (fondi comuni e assicurazioni), quasi il 29% da depositi bancari e postali, circa un quinto da azioni. Una composizione simile a quella media del Nord Ovest e dell’Italia. Solo che lì la ricchezza effettiva diversa dal mattone cresce di più.