“Search and destroy” oppure “clear, hold, build”. Cercare concentrazioni di truppe del nemico e distruggerle per poi tornare alle proprie basi e programmare nuove occasioni di scontro frontale, oppure rastrellare, sgomberare il terreno dai nemici e tenerlo, rimanendoci in maniera capillare e aiutando la popolazione a ricostruire il proprio tessuto sociale, proteggendola dai contatti con il nemico, aiutandola a soddisfare i propri bisogni essenziali e avviando un processo di partecipazione politica dal basso. Sono due concezioni fondamentali nella guerra anti-insurrezione che il generale Usa David Petraeus mette a confronto nel suo libro “L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina” (Utet) scritto insieme allo storico Andrew Roberts.
Il libro va oltre l’analisi delle strategie antiinsurrezionali: si concentra sulle guerre che hanno contribuito all’evoluzione della scienza bellica dal 1945 a oggi, mettendo a fuoco gli elementi determinanti per il successo e l’insuccesso, gli errori commessi (e reiterati) e le lezioni da apprendere. Prende in esame anche la guerra di Corea, quelle tra Israele e paesi arabi, la prima guerra del Golfo, quella tra Russia e Ucraina ma le indicazioni più interessanti ci sembra vengano dall’analisi dei conflitti tra governi legittimi e forze eversive e terroristiche. Perché i conflitti armati che gli Usa e l’Occidente dovranno affrontare in futuro saranno probabilmente locali, tra governi e forze rivoluzionarie o tra fazioni tra le quali bisognerà scegliere chi appoggiare. Senza intervenire direttamente ma consigliando, assistendo e rifornendo di materiale bellico gli alleati. In tali contesti la scelta tra le strategie “Search and destroy” e “Clear, hold, build” sarà fondamentale. E perché della strategia “Clear, hold, build” Petraeus è oggi l’interprete più famoso.
Lo scontro in corso tra Russia e Ucraina è anomalo perché assomiglia alle battaglie della seconda guerra mondiale, e per certi aspetti anche della prima, anche per la conformazione del territorio. Qui le forze Nato non possono intervenire direttamente, come non lo farebbero in un ipotetico scontro armato diretto con la Cina, che si spera non avvenga mai, e potrebbe non avvenire mai se Usa e alleati dimostreranno che il prezzo da pagare per l’invasione di un paese da loro sostenuto è troppo alto. Vale a dire, se dimostreranno di possedere un potere deterrente.
A questo proposito è illuminante una riflessione che gli autori pongono a conclusione del libro: “La deterrenza è una funzione di due fattori: la valutazione da parte di un potenziale avversario delle nostre capacità da un lato, e della nostra disponibilità a usarle dall’altro. (…) Di qui la necessità, per esempio, che gli Stati Uniti e i loro partner nell’Indo-Pacifico trasformino le proprie forze in termini di resilienza, possibilità di sopravvivere, letalità, intelligence degli armamenti e dei sistemi militari moderni. La quantità di denaro che bisogna spendere potrebbe sembrare ingente ma la storia ha sempre insegnato che è soltanto una frazione del costo in sangue e beni richiesto quando la deterrenza fallisce”.
La strategia “Clear, hold, build” è stata il volano della carriera di Petraeus. Il generale americano ha concluso la sua carriera come direttore della Cia ma prima, e soprattutto, è stato comandante delle forze statunitensi in Iraq e Afghanistan. Nella seconda guerra del Golfo era arrivato Iraq al comando della 101ma Divisione aviotrasportata. La guerra contro Saddam era iniziata il 20 marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti e l’1º maggio, il presidente George W. Bush aveva potuto proclamare concluse le operazioni militari su larga scala. Era vero, il feroce dittatore iraqeno era stato sbaragliato in poco più di un mese ma, come noto, la sua scomparsa aveva lasciato campo libero non alla democrazia ma a bande armate che avevano fatto precipitare il paese nell’anarchia e nel terrore. Sunniti contro sciiti ed entrambi contro le truppe della coalizione. Non si è trattato di una ribellione patriottica contro l’occupante straniero ma di tentativi di ciascuna parte di sopraffare le altre. L’obiettivo dell’amministrazione Bush di trapiantare la democrazia in Iraq con poche truppe e in poco tempo era fallito. E fallita era la strategia “Search and destroy”.
Petraeus ha così avuto l’occasione di mettere alla prova le sue teorie. Dal 10 febbraio 2007 al 15 settembre 2008 ha comandato l’Esercito Usa in Iraq, dal 31 ottobre 2008 è stato comandante dell’United States Central Command, con la responsabilità strategica di tutto il teatro medio-orientale, compresa la conduzione delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan e dal 23 giugno 2010 è succeduto al generale Stanley McChrystal come comandante delle operazioni militari statunitensi in Afghanistan, Pakistan, la penisola arabica e parti dell’Africa.
Petraeus aveva elaborato la strategia del surge fondata sul concetto “Clear, hold, build” studiando le cause dell’insuccesso Usa in Vietnam e dei successi britannici in Malesia, nella guerra di protezione della Malesia dall’aggressione dell’Indonesia guidata da Sukarno e contro i ribelli nel sultanato dell’Oman.
In Vietnam gli Usa, a differenza della Francia, non hanno subito gravi sconfitte in scontri campali: sono stati logorati – soprattutto è stata logorata l’opinione pubblica americana – dalla strategia dei Vietcong, che eludevano gli scontri diretti, se sconfitti abbandonavano la zona per rioccuparla appena gli americani, sicuri di averla liberata, ritornavano alle loro basi. In Iraq Petraeus ha imposto la presenza costante e capillare delle proprie truppe sul territorio (hold), puntando sulla sicurezza degli abitanti che, come in Vietnam venivano taglieggiati e minacciati dagli insorti, e promosso la riconciliazione tra gruppi nemici e la ricostruzione di un ordine sociale (build). Operazioni pur sempre accompagnate da quella che i militari chiamano “fase cinetica”, cioè gli scontri armati: sono stati perseguiti senza sosta i leader di Al Qaeda, i rivoltosi e i miliziani estremisti e irriducibili. La violenza nei primi 18 mesi della nuova fase è diminuita dell’85% ed è continuata a diminuire fino a quando gli ultimi soldati americani hanno lasciato l’Iraq nel dicembre 2011.
L’Iraq del dopo Saddam non è una democrazia compiuta, il suo futuro è difficile da prevedere, ma Petraeus ha assolto la propria missione. Come ha fatto in Afghanistan, dove ha applicato la stessa strategia che ha avuto successo in Iraq. Il fatto che lo Stato afghano, dopo la partenza degli Usa, sia crollato in pochi giorni sotto l’urto dei talebani, non si può addebitare ai militari americani: un governo corrotto e inefficiente, truppe non convinte della loro missione non possono essere trasformati da una forza di occupazione. Gli Usa avrebbero dovuto lasciare l’Afghanistan dopo avere raggiunto il risultato di uccidere Bin Laden e smantellare la rete di Al Qaida presente in loco (come Bush senior ha lasciato l’Iraq nella prima guerra del Golfo dopo avere sgomberato il Kuwait dalle truppe iraqene: ha sconfitto Saddam ma lo ha lasciato al potere) oppure restare a tempo indefinito (poco più di 2 mila caduti in una ventina d’anni sono certo un fenomeno doloroso ma non insostenibile per una grande potenza che voglia mantenere la leadership mondiale. Per avere un termine di riferimento teniamo presente che i russi rimasti uccisi in Ucraina – secondo fonti ucraine – dal febbraio 2022 a oggi sono circa 180.000, se si tiene anche conto di feriti e dispersi si arriva a un totale di 500.000 circa). Ma gli Usa sono una democrazia e i cittadini americani a un certo momento non hanno più accettato di pagare un prezzo in termini di vite umane e anche di risorse economiche per una guerra in cui non vedevano un interesse diretto. Anche questo è un insegnamento di cui devono tenere conto i politici occidentali. E anche i loro potenziali alleati: prima di compromettersi con le democrazie occidentali dovranno contemplare la possibilità di trovarsi un giorno soli contro il nemico.
Il libro termina con un’analisi del conflitto in corso in Ucraina e una prefigurazione delle guerre in futuro in cui Petraeus e Roberts vedono confermata la necessità di non sottovalutare mai la componente etica e il ruolo del morale in guerra.