Nel 301 d.C., a fronte di un forte incremento dei prezzi di molti beni, l’editto di Diocleziano bloccò il prezzo di 120 prodotti di prima necessità. Secondo il giudizio degli storici, esso si risolse in un completo fallimento. Manzoni racconta in dettaglio gli effetti del controllo del prezzo di farina e derivati nella Lombardia del Seicento: i risultati non furono positivi.
L’imposizione di un prezzo massimo in periodi di forte aumento del prezzo di alcuni beni è una politica adottata da secoli con risultati tipicamente negativi. Il più recente esempio, in Italia e in altri paesi, è stata l’imposizione di un prezzo massimo (in Italia, pari a 0,50 euro) sulle mascherine chirurgiche nella fase più acuta della crisi Covid–19.
Un rapido riassunto degli eventi: fino a gennaio 2020, il prezzo al dettaglio delle mascherine chirurgiche era intorno ai 10 centesimi. Nei primi mesi del 2020 il loro prezzo esplode, raggiungendo negli Usa (secondo uno studio Oecd) fino a 20 dollari per una singola mascherina. In Italia, a fine aprile, il commissario Arcuri impone per decreto un livello massimo del prezzo al consumo pari a 50 centesimi, introducendo alcune norme (transitorie) per compensare i commercianti nel caso di scorte acquistate a prezzi superiori. La politica è fortemente contestata da importatori, grossisti e grandi catene di distribuzione. Ciò che più conta, per alcune settimane, le mascherine continuano a essere introvabili, sicché il prezzo di 50 centesimi è solo figurativo. Successivamente, cominciano a essere disponibili: nei negozi a un prezzo che in genere è di 50 centesimi; su Amazon a prezzi anche di gran lunga inferiori.
Due letture sono state proposte per questa sequenza di eventi. La prima, che sembrerebbe essere condivisa dal commissario Arcuri, enfatizza il ruolo della “speculazione”: il costo di produrre una mascherina era a gennaio inferiore ai 10 centesimi. È probabilmente aumentato un poco nei mesi successivi, ma certamente non in misura comparabile all’aumento del loro prezzo. Secondo questa lettura, l’aumento deve essere dunque riconducibile all’opera di speculatori che hanno sfruttato la pandemia per manipolare i prezzi. La provvidenziale adozione del prezzo massimo ha riportato la situazione alla quasi–normalità (con un prezzo comunque di 5 volte superiore a quello iniziale).
La seconda si basa sulla discussione degli effetti dell’introduzione di un prezzo massimo contenuta in tutti i libri di testo introduttivi di economia. Ed è considerato un tipico esempio di politica inefficace e controproducente. Vediamo perché.
Il punto di partenza è la pandemia. Fino a febbraio, le mascherine erano usate in ambito medico e in altre attività e da alcune categorie di persone, ma certamente non erano un bene di uso quotidiano per la stragrande maggioranza di noi. Non esistono dati dettagliati sulla loro produzione, ma, per esempio, secondo il sito Statista, al 3 febbraio 2020 la produzione giornaliera in Cina era pari a 3.400.000 unità. Quella mondiale era nell’ordine di qualche decina di milioni. Il diffondersi della pandemia ha causato un’esplosione nella domanda. Per esempio, si pensi che, nella sola Italia, la Protezione Civile si è impegnata a garantire, da settembre, oltre 10 milioni di mascherine al giorno solo alle scuole. Secondo la teoria economica, dato che, a fronte del forte aumento della quantità domandata è impossibile un immediato incremento di analoghe dimensioni della quantità prodotta e offerta, il prezzo del bene non può che aumentare fino al valore in corrispondenza del quale le quantità domandate e offerte sono uguali. Questo avviene indipendentemente dal fatto che vi siano o meno malvagi speculatori che manipolano i prezzi a loro vantaggio. Nell’immediato questo si traduce in un arricchimento dei produttori, che vendono a – diciamo – 1 euro un bene che costa loro 5 centesimi, e a danno degli acquirenti. Tuttavia, se si considerano gli effetti nel tempo, il forte aumento del prezzo svolge un ruolo essenziale, in quanto stimola le imprese presenti nel settore ad aumentare al massimo la loro produzione (per esempio, introducendo turni, lavoro festivo, eccetera) e, soprattutto, induce la creazione di nuove imprese. Ciò comporta che, sia pure con un certo ritardo, la capacità produttiva delle imprese aumenti e con essa la produzione.
L’aumento della produzione, e quindi dell’offerta, si traduce via via in una diminuzione del prezzo al consumo nonostante i volumi scambiati siano aumentati di molto rispetto alla situazione iniziale. Questo è esattamente quello che è avvenuto. Ancora, a titolo di esempio, la produzione giornaliera in Cina a fine aprile era pari a 446 milioni di pezzi al giorno, oltre 130 volte il livello iniziale. Nella Ue si prevede che la produzione questo autunno sia 20 volte quella di gennaio. Incrementi analoghi si registrano in moltissimi altri paesi. Sempre in Cina, secondo il New York Times, tra gennaio e maggio sono state create 70.802 nuove imprese che producono mascherine, 7.296 che producono il tessuto meltblown usato nella loro produzione.
Lo stimolo a questo enorme aumento della produzione è il forte incremento dei prezzi, tanto più che gran parte degli investimenti nel settore non saranno più profittevoli quando, come si spera, la fase acuta della pandemia sarà finita e la domanda ritornerà a livelli comparabili a quelli di dicembre 2019. La conclusione dell’analisi economica, quindi, è che il temporaneo aumento dei prezzi dei beni dovuti a forti incrementi della domanda ha un ruolo essenziale nel garantire la sola vera soluzione permanente al problema: un forte aumento dell’offerta del bene. Il blocco dei prezzi elimina (o riduce) le opportunità di profitto e dunque riduce o elimina gli incentivi delle imprese ad aumentare la produzione, a investire nel settore, e dunque impedisce una rapida soluzione del problema.
Nel caso specifico delle mascherine, ci sono altre due considerazioni importanti. La prima: una parte sostanziale della quantità disponibile in Italia e in molti altri Paesi è importata dalla Cina, che da molti anni le produce a prezzi molto competitivi. Nonostante i temporanei blocchi alle esportazioni adottati in Cina e in altri Paesi, questo ha probabilmente avuto un impatto limitato. La drammatica insufficienza di offerta si è registrata anche per prodotti che sono completamente (Amuchina) o quasi (alcol denaturato) prodotti in Italia. Per esempio, secondo La Stampa, la produzione di Amuchina è cresciuta in Italia negli ultimi mesi del 700%. Tuttavia, almeno fino a luglio, era quasi introvabile. Il problema è quello già visto: la capacità produttiva di Amuchina era dimensionata sulla domanda “normale” di dicembre e non la si è potuta adattare immediatamente a un livello di domanda enormemente superiore. Inoltre, nel caso di beni che sono in buona misura importati dall’estero, l’imposizione di un prezzo massimo ha un ovvio effetto negativo sul volume delle importazioni. Se il prezzo al consumo in Italia è al massimo 50 centesimi, un importatore italiano può pagare al produttore 30-40 centesimi, diciamo. È ovvio che un produttore, per esempio, cinese preferirà vendere agli importatori di paesi in cui non c’è un vincolo sul prezzo, che in genere saranno disponibili a pagare un prezzo superiore.
La seconda: la motivazione che in genere è addotta per motivare i controlli sui prezzi dei beni di prima necessità è che questi hanno effetti particolarmente negativi per le famiglie a basso reddito. Questo è vero. Nella Milano dei “Promessi sposi” l’aumento del prezzo del pane ha effetti devastanti sulle condizioni di vita dei poveri, effetti di second’ordine su quelle dell’Innominato. Tuttavia, di per sé, ovvero se non si accompagna ad altre misure, nulla garantisce che i beni a prezzo calmierato vadano effettivamente ai bisognosi. Dato che, a quel prezzo, la quantità domandata eccede quella offerta, alcuni otterranno il bene a un prezzo relativamente basso, altri otterranno nulla. I beneficiati possono essere (e storicamente in molti casi sono stati) quanti godono di migliori connessioni sociali o quant’altro, non necessariamente i più poveri. Inoltre, le mascherine chirurgiche di cui stiamo parlando sono sì un bene di prima necessità, ma con una caratteristica molto particolare: sono un bene di prima necessità dal punto di vista della società nel suo insieme, in quanto il loro uso diffuso e appropriato riduce la probabilità di contagio e quindi comporta un beneficio collettivo. Non sono un bene di prima necessità da un punto di vista individuale perché riducono il rischio che chi le indossa contagi – se infetto – altri, ma non riducono in misura significativa la probabilità che chi le indossa sia contagiato da altri. Le mascherine chirurgiche sono un esempio estremo di un particolare fenomeno che in economia è chiamato esternalità positiva. Dunque, la consueta motivazione usata per giustificare il controllo sui prezzi è, in questo caso, inconsistente.
Concetta Mendolicchio