Da qualche giorno ci si interroga su quale saranno le prospettive economiche dopo la pandemia Coronavirus. L’impatto devastante del virus, dal punto di vista sanitario, ha riflessi potenzialmente drammatici sulla tenuta dell’economia italiana e mondiale. Concentrandoci sul contesto nazionale, vediamo che l’economia italiana è fortemente sotto stress già da diverso tempo, complice una crescita pregressa piuttosto debole e aggravata dalle tradizionali criticità proprie del nostro mondo economico.
Tuttavia, nonostante il presente appaia incerto e il futuro alquanto nebuloso, lo shock epidemico può offrire anche importanti opportunità per il futuro. Dopo l’epidemia, si aprirà inevitabilmente una partita per la ricostruzione o rivitalizzazione di un tessuto economico-sociale profondamente scosso. Questo processo dovrà seguire chiaramente canoni non convenzionali, si pensi per esempio al possibile piano di rilancio infrastrutturale. Il criterio da seguire nella ricostruzione dovrebbe far prevalere la ragione e il metodo, pertanto ripensando e aggiornando anche alcuni dei modelli regolatori e di governance che si sono dimostrati spesso inadatti a realtà per natura mutevoli.
Un esempio potrebbe essere la questione Sech-Psa, particolarmente dibattuta nelle settimane precedenti l’esplosione del virus e attualmente rinviata dall’Authority genovese al giudizio dell’Avvocatura di Stato. Prescindendo da una valutazione di merito sul caso, questo si dimostra piuttosto emblematico del peso di una burocrazia farraginosa, ancora una volta colpevole di ritardare un processo di promettente sviluppo.
L’antefatto è l’operazione per cui Psa, già concessionario nel terminal di Pra’, acquisirebbe il controllo del terminal Sech, adiacente al costruendo terminal di Calata Bettolo, già assegnato a Msc.
Il terreno di scontro in questo caso è rappresentato dal comma 7 dell’articolo 18 della legge 84/94 che nell’ambito della materia portuale, regola l’affidamento in concessione. Il suddetto comma prevede che «in ciascun porto l’impresa concessionaria di un’area demaniale deve esercitare direttamente l’attività per la quale ha ottenuto la concessione, non può essere al tempo stesso concessionaria di altra area demaniale nello stesso porto». Sembra chiaro che la norma citata neghi la possibilità per un terminalista di possedere più di un terminal nella stessa area portuale.
A questo punto è però lecito domandarsi che tipo di interesse tuteli l’articolo in questione. All’epoca della sua stesura, la ratio della norma risiedeva nel tentativo di evitare concentrazioni nell’ambito di uno stesso porto, in quanto potenzialmente dannose per la concorrenza. Ovviamente il contesto in cui fu emanata fa parte di tutt’altra epoca, dove salpavano navi fino a 6000 teu contro le quasi 24000 di oggi, per esempio.
L’evoluzione del mondo dello shipping negli ultimi decenni ha profondamente modificato il contesto di mercato: il gigantismo navale e l’integrazione verticale, oltre allo sviluppo infrastrutturale di aree sottosviluppate, hanno ampliato il concetto di concorrenza portuale, allargandolo dai terminal stessi a hub geografici diversi e distanti.
Ecco perché oggi a Genova, la partita non è più dentro il porto ma tra la città intesa come sistema portuale, e hub portuali come Rotterdam, Barcellona, Marsiglia, e talvolta anche nordafricani (la crescita dei traffici dei porti di Algeri, Tunisi e Tangeri è stata esponenziale in questi anni).
La riforma Delrio del 2016, introducendo il concetto di sistema portuale e non più porto puntuale, ha cercato di allargare la concorrenza almeno all’intero sistema portuale e non più tra i singoli porti. Pertanto, chi sostiene la fusione ritiene dunque non più rilevante una norma ideata in un contesto totalmente diverso da quello corrente, e si richiama alla mission dell’Autorità Portuale che dovrebbe tutelare la concorrenza garantendo altresì lo sviluppo e la crescita del porto.
Questo è uno dei punti chiave. Sarebbe importante chiedersi se possa essere più funzionale per il sistema portuale genovese l’allargamento di un big player dei terminalisti come Psa, con in dote già il più grande terminal dell’area (quello di Pra’), in grado di garantire economia di scala, capacità di investimento e più attrattività per tutto lo scalo. Quest’ultimo ragionamento può essere inoltre avvalorato dallo sviluppo della One Belt Road Inititative cinese che vedrebbe Genova quale hub chiave di approdo. Contrariamente, lasciare immutata la situazione richiamandosi all’articolo citato preserverebbe sicuramente la concorrenza intra porto, ma favorendo una frammentazione degli scali. In questo caso il giudizio dovrebbe considerare come quella stessa frammentazione ha impedito, di fatto, il raggiungimento di massa critica (vedi il caso di Sampierdarena), comprimendo altresì la capacità di investimento degli operatori coinvolti.
A livello locale la seconda ipotesi potrebbe sembrare migliore, ma allargando la prospettiva a un contesto di mercato reale una valutazione è doverosa. La rincorsa di Genova ai grandi porti non può non passare da un consolidamento dei suoi operatori: laddove la disintegrazione fra piccoli operatori non ha funzionato l’accorpamento può dare una spinta positiva alla competitività. Se si considera poi la recente evoluzione per cui compagnie di shipping investono sui terminal, pensiamo a Cosco e Maersk a Vado, ci si accorge che la competizione perde ulteriormente parte del suo significato laddove le compagnie concentrano i traffici sugli hub a diretto controllo.
Ovviamente va detto che alle condizioni infrastrutturali correnti, il terminal Sech è, insieme a Pra’, l’unico in grado di garantire l’approdo di navi di grandi dimensioni nel bacino genovese, vista la profondità di pescaggio. Questo garantirebbe a Psa l’intero bacino di domanda di navi oltre una certa stazza nel contesto genovese, tagliando fuori Msc insediata a Calata Bettolo.
Tornando dunque al punto di partenza, quando ci si pone la domanda su quale sia il reale problema bisognerebbe ricordarsi che una burocrazia incapace di aggiornarsi non tutela nessuno, a prescindere dalla questione di fondo. La sua incapacità determina interpretazioni conservative richiamate a principi regolatori di contesti diversi. Questo rappresenta non solo un errore nel metodo, ma anche nel merito poiché limita la possibilità di giudicare la qualità delle opportunità. È chiaramente compito della politica rinnovare aspetti regolatori e modelli di governance. Pertanto, se questa epidemia offrirà delle opportunità, sarebbe giusto giudicarle non solo nel contesto emergenziale, ma anche come occasione per ripensare taluni modelli ormai avulsi da contesti reali.
(Davide Siviero e Andrea Vella)