Provoca malformazione ossea e mal funzionamento del sistema immunitario, ma non si sapeva cosa fosse e quale origine avesse. Un passo avanti verso le cure di una malattia rara prima ignota, grazie a Stefano Volpi, ricercatore del Gaslini di Genova, che ha scovato la mutazione di un gene (l’Extl3) alla base di queste gravi patologie.
Lo studio è stato possibile grazie alla collaborazione con le Università di Harvard e Losanna.
Pubblicato sulla prestigiosa rivista The Journal of Experimental Medicine, il lavoro ha richiesto una lunga fase di indagine, compiuta in gran parte grazie alla perseveranza di Volpi, che ha avuto la possibilità di avvalersi di tecniche molto avanzate, come la riprogrammazione cellulare e lo studio delle alterazioni del gene.
L’idea di iniziare uno studio in questo ambito è nata alcuni anni fa, quando Maja Di Rocco, responsabile dell’unità operativa Malattie rare dell’Istituto Gaslini, ha seguito tra il 2008 e il 2011 due fratellini affetti da una patologia complessa e sconosciuta, caratterizzata principalmente da malformazioni ossee (displasia scheletrica) e immunodeficienza primitiva, cioè un malfunzionamento del sistema immunitario che rende molto suscettibili alle infezioni. Purtroppo i due fratellini sono deceduti nel primo anno di vita per la severità della malattia.
Per cercare di capire la causa della malattia, Di Rocco ha discusso il caso con il professore Andrea Superti-Furga, dell’Università di Losanna, riferimento europeo per le malattie dello scheletro. Escluse le cause note di malattie simili, Superti-Furga ha studiato l’intero dna dei pazienti e ha identificato la mutazione in quello che sembrava il gene più probabilmente responsabile della malattia. Per verificare l’ipotesi è stato coinvolto nello studio il professore Notarangelo, dell’ospedale pediatrico dell’Università di Harvard a Boston, tra i massimi esperti mondiali di immunodeficienze. Quest’ultimo ha incaricato di seguire il progetto di ricerca Stefano Volpi, suo ricercatore, che proveniva proprio dall’ospedale Gaslini.

«Per trovare la connessione abbiamo usato due approcci innovativi – spiega Volpi – abbiamo riprogrammato le cellule della pelle del paziente facendole diventare cellule staminali e da queste abbiamo ricreato in laboratorio le cellule del sistema immunitario, per scoprirne i difetti. In seguito abbiamo studiato il deficit di quel gene in un modello di pesce tropicale – lo zebrafish – che essendo trasparente durante lo sviluppo, permette di vedere gli organi in formazione. Il meccanismo che abbiamo scoperto è il seguente: il gene che non funziona cambia la struttura di alcune proteine coinvolte nei segnali di crescita necessari per il corretto sviluppo delle ossa, dei linfociti e del timo, organo in cui maturano i linfociti. Nei pazienti questi segnali non funzionano più come dovrebbero, e causano un blocco nello sviluppo delle ossa e dei linfociti con conseguente malfunzionamento del sistema immunitario».
Cinque anni il lavoro su questi casi.
«Giungere alla diagnosi di una malattia genetica – aggiunge Di Rocco – permette, anche attraverso il confronto con i casi analoghi descritti nel mondo, di ipotizzare l’evoluzione clinica e di conoscere le terapie efficaci, già sperimentate. Arrivare a capire i meccanismi responsabili della malattia, come tutti gli studi di base, rappresenta un mattone indispensabile per lo sviluppo futuro di nuovi metodi diagnostici e nuove terapie».