L’Istituto Bruno Leoni (IBL) affronta la questione delle concessioni demaniali marittime con il briefing paper dell’avvocato Francesco Bruno “Il futuro delle concessioni demaniali marittime in Italia: un riordino necessario”.
Francesco Bruno è avvocato e ha conseguito un Master in Law and Economics (LL.M.). È collaboratore di Econopoly – Il Sole 24 Ore e autore di contributi per l’Institute of Competition Law.
“Gli operatori del settore – sostiene Bruno – possono guardare alle possibilità che offrirà la nuova eventuale disciplina competitiva e prepararsi al cambiamento, anche nel rispetto della normativa antitrust. Non bisogna avere timore di competere e di provare a crescere, occorre invece superare l’idea secondo cui il tessuto imprenditoriale italiano debba puntare necessariamente sul modello pmi. Anche un’azienda di tipo familiare può crescere, sfruttando e proiettando quei valori accumulati nel tempo in un’epoca in cui servono sicuramente capitali, ma nella quale vincono soprattutto le idee e la capacità di innovazione”.
L’Istituto Bruno Leoni, intitolato al grande giurista e filosofo torinese, “intende studiare, promuovere e diffondere gli ideali del mercato, della proprietà privata, e della libertà di scambio”. Ha sede operativa a Milano.
Pubblichamo integralmente il documento di Francesco Bruno
A breve, comincerà una nuova stagione estiva, e ancora una volta si riproporranno temi e problemi relativi alle concessioni demaniali marittime. Come noto, in Italia i concessionari degli stabilimenti balneari hanno fatto costante affidamento sul fatto che le loro concessioni venissero prorogate ad ogni scadenza, trattando lo spazio concesso, di fatto, come loro proprietà. Si è trattato di una simulazione anche positiva, considerati gli investimenti e le migliorie che essi sono stati disposti a realizzare confidando appunto nel mantenimento della concessione, ma al tempo stesso di un regime di fatto in deroga alla legge e contrario alle norme europee sui servizi. Infatti, come dichiarato dall’Avvocato Generale Maciej Szpunar lo scorso 25 febbraio all’interno di un procedimento, conclusosi dinnanzi la Corte di Giustizia Europea, che riuniva due domande pregiudiziali sollevate da giudici dei Tar di Lombardia e Sardegna: “L’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che proroga automaticamente la data di scadenza delle autorizzazioni relative allo sfruttamento del demanio pubblico marittimo e lacuale”.
La vicenda lombarda traeva origine da un ricorso presentato dalla Promoimpresa Srl per il mancato rinnovo di una concessione – decisa dal Consorzio dei comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro – per lo sfruttamento di un’area a fini ricreativi all’interno del demanio del Lago di Garda. Vicenda analoga in Sardegna, dove una serie di gestori di attività balneari aveva dapprima chiesto la proroga delle concessioni in essere senza ricevere risposta e, successivamente, aveva presentato ricorso contro gli atti di gara pubblica promossa dal Comune di Loiri Porto San Paolo per l’aggiudicazione di sette concessioni, nelle quali rientravano anche i tratti di spiaggia dei ricorrenti.
Trattasi di una questione italiana annosa e di cui anche l’Istituto Bruno Leoni si è già occupato.
Il fatto che nel 2017 siamo ancora qui a discuterne, significa che il legislatore non è riuscito a risolvere i conflitti tra legge italiana ed europea. E così gli attuali operatori del settore degli stabilimenti balneari si trovano in questo stato di limbo, con gli investimenti bloccati dal timore di perdere l’orticello coltivato in tanti anni e con tanta cura.
Il presente focus è suddiviso in due parti. Nella prima viene ripercorsa brevemente la storia normativa e giurisprudenziale delle concessioni balneari in Italia, fino a giungere al recente caso esaminato dalla Corte di Giustizia e alle sue ripercussioni.
La seconda parte concerne invece una riflessione di carattere generale sulla complessa questione, con alcuni consigli non richiesti per il legislatore chiamato a intervenire e per gli operatori interessati affinché possano prepararsi meglio al cambiamento in arrivo.
Un breve passo indietro
Come noto, le nostre spiagge fanno parte del demanio pubblico (art. 822 Cod. Civ.). Ciò implica che le stesse siano “inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano” (art. 823 Cod. Civ.).
Per quanto riguarda gli eventuali diritti a favore di terzi, il Codice della navigazione (r.d. n. 327/1942) dispone al primo comma dell’art. 36 che “L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’ occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo”. L’individuazione del soggetto competente ad autorizzare le concessioni ha vissuto nei decenni un intenso travaglio legislativo fino alla riforma costituzionale del 2001, con la quale le funzioni amministrative di rilascio sono state attribuite agli enti territoriali minori (Comuni e Province).
Per quanto concerne l’uso dei beni demaniali, si inseriva nel contesto il D.L. n. 400/1993, il quale all’art. 1 – comma 1 stabilisce che è possibile rilasciare le concessioni anche per attività di “gestione di stabilimenti balneari” o di “esercizi di ristorazione e somministrazione di bevande, cibi precotti e generi di monopolio” o di “gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive” e di altre attività. Al comma 2, invece, disposizioni sulla durata e sui rinnovi, adesso abrogate.
Ci avviciniamo così al fulcro del discorso, che riguarda non solo le concessioni, ma soprattutto i rinnovi e le proroghe delle stesse. L’art. 37 del Codice della navigazione prevede attualmente al primo comma che “Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell’amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico”, mentre prevedeva al secondo comma, nella sua vecchia versione, che “Al fine della tutela dell’ambiente costiero, per il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime per attività turistico-ricreative è data preferenza alle richieste che importino attrezzature non fisse e completamente amovibili. È altresì data preferenza alle precedenti concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze”.
La parte qui evidenziata rappresenta il vecchio fondamento normativo sul quale si basavano i rinnovi delle concessioni nel nostro Paese, che vedevano quindi i concessionari uscenti partire in posizione di netto vantaggio.
In rafforzamento di questa posizione di vantaggio, l’articolo 10 della Legge n.88/2001 confermava il meccanismo di rinnovo automatico della durata, di sei anni in sei anni, delle concessioni demaniali marittime, salvo il potere di revoca della concessione in capo all’amministrazione competente.
La Direttiva Bolkestein e la procedura d’infrazione
Già prima dell’approvazione della cosiddetta Direttiva Bolkestein (Direttiva n. 123/2006, anche “Direttiva” nel prosieguo) il quadro normativo suesposto collideva aspramente con il diritto dell’Unione Europea, in particolare con la libertà di stabilimento prescritta dagli artt. 49-55 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE” nel prosieguo), che vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato Membro nel territorio di un altro Stato Membro.
La Direttiva Bolkestein è poi entrata a gamba tesa sulla normativa italiana di riferimento, prevedendo al primo comma dell’articolo 12 che: “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.
Al secondo comma è previsto il divieto del rinnovo automatico e della concessione di vantaggi competitivi al prestatore uscente (le eccezioni per casi particolari di esigenze di salute pubblica, ambiente, sicurezza etc. sono invece previste dal comma 3).
In cambio di queste abrogazioni, il Governo Italiano è riuscito a barattare un periodo transitorio per il riordino della disciplina fino al 31 dicembre 2015. Visti i ritardi accumulati e la decisione della Corte di Giustizia di cui al successivo paragrafo, il legislatore ha adottato una soluzione ponte, con l’art. 24, comma 3-septies del Decreto Legge n. 113/2016 (convertito in legge, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2016, n. 160) che ha fatto salve le concessioni già prorogate fino al 2020, in attesa di una revisione dell’intera disciplina. In ultimo, in data 27 gennaio 2017, il Governo ha approvato un disegno legge di delega al Governo per il riordino della disciplina e il superamento dei contrasti con la normativa.
Se il Parlamento dovesse approvare il disegno di legge nella versione attuale, il Governo sarebbe chiamato ad adottare uno o due decreti legislativi sulla materia.
Il caso deciso dalla Corte di Giustizia
Dall’emanazione della legge comunitaria n. 217/2011 – nella quale veniva delegato il Governo a presentare un decreto legislativo di riordino della disciplina – è già passato tanto tempo e, ad oggi, è stato disatteso il “fine di rispondere all’esigenza degli operatori del mercato di usufruire di un quadro normativo stabile che, conformemente ai principi comunitari, consenta lo sviluppo e l’innovazione dell’impresa turistico-balneare-ricreativa”.
Nonostante i recenti sviluppi, siamo ancora molto lontani dall’approvazione della nuova disciplina. Ma nonostante l’inerzia del legislatore, il caso dinnanzi la Corte di Giustizia di cui in premessa è riuscito a richiamare l’attenzione sul tema. Per capire le conseguenze del giudizio europeo pendente, si noti che il rinvio pregiudiziale consiste nella facoltà per un giudice di un Paese membro dell’Unione europea di interrogare la Corte di Giustizia europea sull’interpretazione o sulla validità di norme di diritto europeo che interessino la risoluzione del caso giudiziale di specie. È importante evidenziare che la decisione della Corte di Giustizia è obbligatoria sia per il giudice nazionale che abbia posto la domanda pregiudiziale, sia per tutte le giurisdizioni nazionali degli Stati membri, divenendo interpretazione autentica e vincolante. Prima della sentenza, già l’opinione dell’Avvocato Generale aveva argomentato per una bocciatura della normativa italiana in vigore, la quale colliderebbe con il diritto europeo.
Nella sua disamina resa il 25 febbraio 2016, Mr. Szpunar si sofferma sulle diverse argomentazioni sollevate dai ricorrenti. In particolare:
A. in primo luogo, sull’applicabilità della direttiva ai casi di specie, respinge le similitudini tra concessioni demaniali e locazioni commerciali, sostenendo che le prime necessitano di un provvedimento autorizzativo di un Ente pubblico a differenza delle seconde che possono prescinderne; B. in secondo luogo sostiene che le concessioni per lo sfruttamento di beni demaniali non rientrino nella disciplina delle concessioni di servizi, poiché quest’ultime riguardano l’espletamento di attività che sarebbero in principio onere dell’amministrazione concedente, a differenza delle prime che riguardano attività meramente lucrative. In subordine, sostiene l’Avvocato, anche qualora la disciplina delle concessioni demaniali marittime rientrasse in quella dei servizi e degli appalti pubblici, si applicherebbe comunque il principio della libertà di stabilimento; C. inoltre, M. Szpunar non accoglie la tesi secondo cui le coste marittime e lacuali non siano classificabili come “risorse naturali scarse”, atteso che ogni amministrazione pubblica interessata può invero concedere un numero limitato di autorizzazioni.
Il punto probabilmente più importante dell’analisi riguarda la risposta agli argomenti sollevati dai ricorrenti nel procedimento principale e dal Governo italiano, i quali hanno sostenuto che la proroga delle concessioni demaniali marittime e lacuali sarebbe giustificata dalla necessità di garantire la remunerazione degli investimenti effettuati nella convinzione di poter ottenere i rinnovi delle autorizzazioni, in ossequio alla tutela del legittimo affidamento e in attesa di passare a un regime di aggiudicazioni competitive.
Tali motivazioni non sono condivise dall’Avvocato Generale, poiché in primo luogo andrebbe condotta un’analisi caso per caso delle autorizzazioni concesse per verificare gli investimenti compiuti anziché concedere un rinnovo automatico erga omnes. In secondo luogo, l’Avvocato sostiene che nei casi di specie la scadenza delle autorizzazioni era fissata al 2010, quindi i titolari avevano avuto sicuramente modo di commisurare gli investimenti in base a quella durata.
La Corte, in data 14 luglio 2016,4 ha dichiarato il contrasto delle normative nazionali oggetto di contenzioso con l’art. 12 della Direttiva Bolkestein e con l’art. 49 del TFUE, confermando le conclusioni dell’Avvocato Generale.
Le resistenze degli operatori economici
Come detto, i titolari di concessioni demaniali marittime fronteggiano una soluzione concorrenziale come quella prospettata dall’ordinamento europeo. Vediamo perché.
Il Sindacato Italiano Balneari (“SIB” nel prosieguo) descrive lo stabilimento balneare come un servizio tipico del nostro Paese, che si inserisce a pieno nella cultura e nella tradizione italiana. Riassunto in una frase eloquente, l’assetto attuale delle concessioni consente di “Difendere la piccola/media impresa guidata dall’uomo contro la grande impresa guidata dall’economia e dalla finanza: questo è il principio che vorremmo fosse perseguito ed attuato nel nostro Paese”.
Le proposte del SIB (che rappresenta migliaia di operatori del settore) al Governo sono: A. una durata più lunga (minimo 30 anni) delle concessioni demaniali marittime; B. «l’alienazione con diritto di opzione in favore dei concessionari delle porzioni di demanio marittimo che, da tempo, hanno perso le caratteristiche della demanialità e della destinazione ai pubblici usi del mare»; C. “Il riconoscimento del ‘valore commerciale’ dell’azienda balneare da trasformarsi in ristoro a favore del concessionario nel caso di cessione coattiva in favore di terzi»; D. “la modifica dei criteri di determinazione dei canoni demaniali marittimi ex art 1, comma 251, legge 27 dicembre 2006, n. 296 che li renda ragionevoli, equi e sostenibili (oggi circa 200 aziende, non essendo in grado di pagare le spropositate cifre richieste, rischiano la decadenza del titolo concessorio)”.
Le ragioni in favore della concorrenza
Si immagini che l’Unione Europea non esista e che, di conseguenza, non esista alcuna direttiva cosiddetta Bolkestein. Sarebbe socialmente desiderabile e accettabile quello che chiede il SIB? Per fare ciò dovremmo rinunciare all’idea pubblicistica delle spiagge, che diventerebbero locabili per decenni o addirittura alienabili solo in nome di un’asserita conduzione riconducibile alla piccola e media impresa nella gestione degli stabilimenti balneari.
È evidente che questa concezione collide in primo luogo con la tradizione giuridica italiana prima che europea (artt. 822 e 823 del Codice Civile già citati). Per rinunciare a questa costruzione giuridica secolare si dovrebbe ribaltare il concetto e la definizione del demanio pubblico. Vi è quindi una contraddizione evidente se da un lato si sostiene la natura pubblicistica degli spazi e dei servizi mentre dall’altro si chiede una privatizzazione de facto degli stessi.
L’impianto pubblicistico del nostro ordinamento, che vieta le alienazioni e le locazioni delle spiagge, non può prescindere da un regime autorizzativo preceduto da una procedura competitiva tra più aspiranti interessati, in concorrenza tra loro.
La concorrenza diventa quindi un elemento essenziale al fine di poter continuare con questo assetto giuridico che non intende intaccare il concetto di bene demaniale.
Il sistema delle proroghe è stato dichiarato in contrasto con la legislazione europea dalla Corte di giustizia, ed è comunque lesivo delle ragioni della certezza del diritto e della concorrenza
La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sulla questione, prendendo una posizione favorevole alla concorrenza e contraria al regime dei rinnovi automatici. Nel 2013 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 di una Legge della Regione Liguria (n. 24/2012) che introduceva una proroga automatica e non temporalmente delineata di alcune concessioni marittime nei casi di mareggiate o eventi atmosferici in grado di provocare danni agli stabilimenti balneari. Scrive la Corte che (…) il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni viola l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando altresì una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti. Al contempo, la disciplina regionale impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo barriere all’ingresso, tali da alterare la concorrenza (…).
In precedenza, nel 2011, la Consulta7 aveva bocciato per la medesime motivazioni tre leggi emanate dalle regioni Marche, Abruzzo e Veneto.
Altre tre sentenze significative nel 2010, una delle quali in perfetta sintonia con la posizione dell’Avvocato Generale sugli investimenti effettuati dai concessionari e sul legittimo affidamento. Nel caso di specie, che riguardava una legge dell’Emilia-Romagna, la regione sosteneva che (…) la norma impugnata (nda art. 1 della legge della Regione Emilia-Romagna 23 luglio 2009, n. 8) si giustifica perché collega la durata delle concessioni agli investimenti effettuati dal concessionario per la valorizzazione del bene e delle relative infrastrutture. La norma regionale impugnata prevederebbe, infatti, la possibilità di una proroga della durata della concessione solo a seguito della presentazione di un programma di investimenti per la valorizzazione del bene dato in concessione, che, solo se apprezzato dall’amministrazione di riferimento, determinerà una maggiore durata del rapporto concessorio, proporzionale
alla tipologia di investimento proposto, al fine di consentire l’ammortamento dei costi e l’equa remunerazione dei capitali investiti. Non vi sarebbe, dunque, violazione del principio di libertà di concorrenza, in quanto la norma impugnata sarebbe preordinata a tutelare il principio dell’affidamento e le legittime aspettative dei concessionari, in ragione dei loro obiettivi di miglioramento delle infrastrutture serventi il bene demaniale in concessione.
La Consulta non accoglieva tale motivazione, sostenendo che questo argomento avrebbe un senso solo se – per ipotesi – la norma impugnata avesse lo scopo di ripristinare la durata originaria della concessione, neutralizzando gli effetti di una precedente norma che, sempre per ipotesi, avesse arbitrariamente ridotto la durata della stessa. Nel caso all’odierno esame, invece, si tratta della proroga di una concessione già scaduta, e pertanto non vi è alcun affidamento da tutelare con riguardo alla esigenza di disporre del tempo necessario all’ammortamento delle spese sostenute per ottenere la concessione, perché al momento del rilascio della medesima il concessionario già conosceva l’arco temporale sul quale poteva contare per ammortizzare gli investimenti, e su di esso ha potuto fare affidamento. Al contempo, la disciplina regionale impedisce l’accesso di altri potenziali operatori economici al mercato, ponendo barriere all’ingresso tali da alterare la concorrenza tra imprenditori.
La norma impugnata determina, dunque, un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento (detto anche “di non discriminazione”), che si ricava dagli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi.
Anche la giurisprudenza amministrativa si è espressa in favore di un regime concorrenziale.
Afferma il Consiglio di Stato che (…) il titolare di una concessione non ha in generale un titolo per vantare una posizione poziore rispetto ad eventuali altri aspiranti, atteso che il c.d. Diritto di insistenza (già conferito dall’art. 37 cod. nav. in favore del titolare della concessione demaniale marittima in scadenza e ora espunto dall’ordinamento ad opera dell’art. 1, comma 18, del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 convertito con l. 26 febbraio 2010, n. 25, su cui da ultimo Consiglio di Stato, sez. VI, 26 ottobre 2012, n. 5484) non può considerarsi tale da determinare sempre e comunque la prevalenza dell’insistente rispetto agli altri eventuali concorrenti, che abbiano prodotto regolare istanza di concessione in relazione agli stessi spazi demaniali, non potendo tale previsione normativa, secondo un’interpretazione conforme ai principi di concorrenzialità di derivazione comunitaria, essere intesa come un meccanismo capace di elidere ogni confronto concorrenziale tra più istanze in competizione (da ultimo, Consiglio di Stato sez. VI, 26 maggio 2011 n. 3160). Inoltre, (…) è certamente inconferente la vantata aspettativa maturata (…) e legata al comportamento tenuto dall’amministrazione nel corso degli anni, in quanto l’utilizzazione di un bene demaniale avviene unicamente attraverso la procedura di evidenza pubblica, e non può quindi darsi rilievo alla situazione di illegittima detenzione come elemento fondante una posizione di privilegio.
Le sfide che attendono il legislatore e gli operatori del settore
L’atteso intervento di riordino è chiamato a ridisegnare il sistema in un’ottica coerente con la Direttiva Bolkestein, aprendo a una vera concorrenza tra gli operatori senza favoritismi. L’onere che incombe sul regolatore non è semplice, poiché non si può rimanere del tutto insensibili alle istanze (alcune legittime) dei concessionari attuali. Lo schema di delega prevede, sul punto, «criteri e modalità di affidamento nel rispetto dei principi di concorrenza», preludio di un’applicazione delle gare competitive al settore. Non è solo una questione di “remunerazione” per gli investimenti effettuati, perché se questo fosse veramente il caso (che è tutto da provare) si dovrebbe/potrebbe aprire una strada a degli indennizzi risarcitori, senza la necessità di protrarre oltre modo vantaggi concorrenziali.
Più che altro sarebbe opportuno cercare di non far disperdere e dissipare quel bagaglio di esperienze accumulate nel tempo.
Ma come si può “tenere conto” delle proteste degli operatori impauriti senza violare la direttiva Bolkestein e la normativa antitrust? Innanzitutto bisognerebbe non consentire alle regioni e agli enti locali di farsi catturare dai maggiori canoni ottenibili con le gare pubbliche. Una corrente di pensiero infatti vorrebbe far pagare a caro prezzo le concessioni, spesso considerate come un regalo ai privati. In merito ai canoni, lo schema di ddl prevede di rideterminare la misura dei canoni concessori con l’applicazione di valori tabellari, tenendo conto della tipologia dei beni oggetto di concessione, anche con riguardo alle pertinenze e alle relative situazioni pregresse, e prevedere la classificazione, quanto alla valenza turistica, in differenti categorie dei medesimi beni, applicando a quelli di maggiore valenza un canone più elevato con l’attribuzione di una quota, calcolata in percentuale sulle maggiori entrate annue rispetto alle previsioni di bilancio, a favore della regione di riferimento.
Sebbene l’introduzione di procedure competitive possa – in teoria – comportare un aumentodelle entrate pubbliche, ciò non può divenire l’elemento principale delle procedure.
Se l’obiettivo principale fosse quello di rallegrare le tristi casse degli enti locali attraverso prelievi che prosciughino i profitti degli operatori, si otterrebbero risultati opposti a quelli sperati.
Per evitare simili storture e non “traumatizzare” gli operatori, si potrebbe seguire l’esempio del nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) nel quale si è ridotta l’applicabilità del criterio di aggiudicazione del massimo ribasso in favore dell’offerta economicamente vantaggiosa (OE+V). Nel detto nuovo Codice, anche nei casi di OE+V è possibile neutralizzare la componente prezzo, fino a escluderla del tutto, parametrando la competizione solo sui requisiti tecnici, di qualità o di sostenibilità ambientale.
Le concessioni demaniali marittime rientrano nei cosiddetti “contratti attivi” della pubblica amministrazione, poiché comportano un’entrata per l’Erario. Nella disciplina previgente la giurisprudenza aveva ribadito la non applicabilità del vecchio Codice degli appalti (D.Lgs. 163/2006) alle concessioni demaniali marittime (tra le ultime TAR Toscana, Sentenza n. 922/2015). Anche nel nuovo codice i contratti attivi sono stati esclusi dalla disciplina, come rileva il Consiglio di Stato nel suo parere sulla nuova normativa. Scrivono i giudici di Palazzo Spada che “(…) Il codice, inoltre, pone alcuni principi di tutela della concorrenza nei contratti pubblici, che costituiscono un quadro di riferimento anche per i contratti attivi della pubblica amministrazione, allo stato non inclusi nel codice (locazioni attive, concessioni demaniali, concessioni di denaro pubblico) e che pure, in sede di futura implementazione, vi potrebbero essere inseriti”.
L’auspicio del Consiglio di Stato lascia aperta la porta ad un’applicazione futura della nuova disciplina anche ai cd. “contratti attivi”. Ma anche se ciò non dovesse avvenire per volontà legislativa, i singoli bandi potrebbero comunque regolare le procedure di gara in base ai criteri del nuovo Codice, come è già avvenuto in alcuni casi (salvo applicazione della disciplina del Codice della navigazione in sede contenziosa). Si potrebbe anche consentire l’inserimento di un criterio di “professionalità nel settore”,
attribuendo a tale criterio un certo punteggio. Ovviamente, per evitare abusi e favoritismi, il detto requisito non dovrà rappresentare il parametro decisivo ai fini dell’aggiudicazione, ma solo uno dei criteri che concorrono al punteggio finale raggiunto da ogni partecipante. In questo modo si potrà riconoscere il valore della professionalità acquista negli anni, senza però impedire a un nuovo aspirante operatore che sia in grado – ad esempio – di offrire migliori servizi, standard ambientali più sicuri o investimenti più cospicui, di entrare nel mercato.
Altro compito difficile per il legislatore sarà la determinazione della durata. La Legge europea del 2011 già citata prevedeva, all’articolo 11, che fosse lo Stato a indicare le soglie minime e massime da rispettare, lasciando alle regioni la libertà di scegliere all’interno di queste soglie.
Attualmente è ancora in vigore l’art. 4-bis del Decreto Legge n. 400/1993, il quale prevede una durata che può essere superiore a 6 anni e inferiore a 20 «(…) in ragione dell’entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle regioni». La direttiva recita al riguardo, che “(…) la durata dell’autorizzazione concessa dovrebbe essere fissata in modo da non restringere o limitare la libera concorrenza al di là di quanto è necessario per garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa dei capitali investiti”, senza indicare riferimenti temporali precisi. La Commissione europea ha confermato questo orientamento, senza indicare una durata, in risposta ad una interrogazione dell’europarlamentare del Movimento 5 Stelle Ignazio Corrao: “(…) non è necessario parametrar[e la durata] al tempo occorrente per il recupero degli investimenti effettuati, essendo sufficiente che il valore degli stessi al momento della gara, sia posto a base dell’asta”. La Conferenza delle regioni, nel parere del 25 marzo 2015, ha chiesto invece che “venga (…) confermata la possibilità di attivare un “doppio binario” che distingua le concessioni attualmente in vigore da quelle nuove, con una proroga di lunga durata per le prime anche attraverso investimenti e procedure di evidenza pubblica subito applicati per le seconde”.
Probabilmente il legislatore opterà per una scelta che lasci margini di discrezionalità alle regioni, così come ha fatto nel nuovo Codice dei contratti pubblici summenzionato (art. 168), fissando come principio quanto indicato nella direttiva. Tuttavia sarebbe opportuno stabilire quantomeno una durata massima per evitare abusi. L’attuale durata massima pari a 20 anni sembra però eccessiva, anche in virtù delle citate sentenza della Corte Costituzionale.
Al momento, sul punto della durata, lo schema di disegno di legge del Governo, prevede l’indirizzo di stabilire adeguati limiti minimi e massimi di durata delle concessioni entro i quali le regioni fissano la durata delle stesse in modo da assicurare un uso rispondente all’interesse pubblico, nonché prevedere che le regioni possono disporre che un operatore economico può essere titolare di un numero massimo di concessioni, tale comunque da garantire adeguata pluralità e differenziazione dell’offerta, nell’ambito territoriale di riferimento.
In generale, i tempi per il cambio di normativa sembrano ancora molto lunghi. Anche in caso di (difficile) approvazione rapida di un disegno di legge delega e di un successivo decreto legislativo di riordino, la lunghezza del periodo transitorio potrebbe comportare in ogni caso il rischio di ripensamenti politici. Ad ogni modo, non si può escludere un nuovo intervento della Commissione europea sul punto.
Conclusioni
Il reale timore confessato dagli operatori è quella di essere sovrastati da grandi aziende, investitori italiani o esteri, con i quali sarebbe impossibile competere per limiti dimensionali e strutturali.
È possibile disciplinare l’aggiudicazione delle concessioni in maniera trasparente e aperta senza per questo compromettere necessariamente gli investimenti fatti.
Tali forme di raggruppamento sono attualmente previste dall’articolo 48 del nuovo codice degli appalti. La nuova disposizione definisce le RTI verticali come (…) un raggruppamento di operatori economici in cui il mandatario esegue le prestazioni di servizi o di forniture indicati come principali anche in termini economici, i mandanti quelle indicate come secondarie e quelle orizzontali come quelle (…) in cui gli operatori economici eseguono il medesimo tipo di prestazione; le stazioni appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione principale e quelle secondarie. L’offerta di gara viene presentata dalla capogruppo in base a un mandato conferito dalle altre partecipanti, ma tutte le associate sono obbligate in solido nei confronti della stazione appaltante. Ovviamente ogni impresa mantiene la sua autonomia e indipendenza giuridica al di fuori del raggruppamento.
Naturalmente, sia l’attribuzione di un punteggio al requisito della ”professionalità”, sia – soprattutto – la possibilità di partecipare alle gare in ATI/RTI, dovrà essere disciplinata in pieno ossequio alla normativa antitrust italiana ed europea. Proprio sulle associazioni temporanee tra imprese l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha sempre mostrato una grande attenzione, soprattutto nei confronti delle cosiddette “RTI sovrabbondanti”, nelle quali ciascun associato sarebbe in grado di partecipare autonomamente alla gara e che meritano, pertanto, una maggiore analisi dei profili anticoncorrenziali. Infatti secondo la disciplina concorrenziale questi strumenti, pur avendo lo scopo di allargare e favorire la concorrenza e soprattutto i piccoli operatori, possono nascondere finalità anticoncorrenziali (cartelli), volti a restringere la libera concorrenza (provando a eliminare un competitor ad esempio). Tra l’altro, trattandosi di gare pubbliche, in questi casi si può configurare anche una responsabilità penale ex art. 353 del codice penale che riguarda la turbativa delle aste pubbliche. Gli operatori del settore possono dunque guardare alle possibilità che offrirà la nuova eventuale disciplina competitiva e prepararsi al cambiamento, anche nel rispetto della normativa antitrust.
Ad esempio, con l’avvento delle gare competitive, ogni operatore potrà provare a sfruttare la sua esperienza pregressa per partecipare a più procedure in più Comuni, limitrofi e non, cercando di crescere e di aumentare il fatturato con una vera e rinnovata gestione aziendale. Questo consentirebbe di sfruttare economie di scala in grado di neutralizzare i costi e aumentare ricavi e successivi investimenti.
A meno che la durata delle concessioni non sia troppo lunga, l’apertura del mercato alla concorrenza consentirà agli operatori maggiori opportunità anche in caso di perdita delle concessioni attualmente in vigore. Infatti, l’eliminazione dei rinnovi automatici aumenterà il numero e la frequenza dei bandi di gara, offrendo diverse possibilità sia agli attuali concessionari, sia ai nuovi.
Non bisogna avere timore di competere e di provare a crescere, occorre invece superare l’idea secondo cui il tessuto imprenditoriale italiano debba puntare necessariamente sul modello PMI. Anche un’azienda di tipo familiare può crescere, sfruttando e proiettando quei valori accumulati nel tempo in un’epoca in cui servono sicuramente capitali, ma nella quale vincono soprattutto le idee e la capacità di innovazione.