
“Antonin Scalia” di Giuseppe Portonera (IBL Libri) descrive il metodo interpretativo e le dottrine costituzionali di Antonin Scalia (1936-2016), uno dei giuristi più famosi del mondo, per una trentina d’anni giudice della Supreme Court of the United States.
Il libro di Portonera non è solo un saggio di storia del diritto e non interessa soltanto i giuristi, riguarda uno snodo strategico dell’organizzazione sociale, il rapporto tra leggi, idee e società. E tra magistratura e politica. Una tematica già attuale di per sé, per di più al centro di una questione che in questi giorni infiamma l’opinione pubblica, negli Usa e nel mondo: la sentenza della Corte suprema statunitense sulla legislazione che riguarda l’aborto. Il 24 giugno scorso la Corte suprema ha annullato la sentenza del 22 gennaio 1973 Roe vs Wade secondo la quale la Costituzione federale impediva a ogni Stato di limitare il diritto della donna ad abortire. La sentenza del 1973 si fondava su un’interpretazione del Quattordicesimo emendamento, approvato nel 1868 con lo scopo di garantire i diritti degli ex schiavi, che affermava: «Nessuno Stato produrrà o applicherà una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti».
Prima della sentenza Roe vs Wade, l’aborto era disciplinato da ciascuno Stato federato con legge propria. In alcuni Stati non poteva essere praticato in nessun caso, in altri era legale per alcuni casi, come pericolo per la donna, stupro, incesto o malformazioni del feto, in altri ancora era legittimo su semplice richiesta della donna, senza altre condizioni. La sentenza Roe vs Wade, considerando l’aborto un diritto della donna, lo riteneva tutelato dal Quattordicesimo emendamento e quindi vietava ai singoli Stati di limitarlo.
Con la sentenza del 24 giugno scorso le decisioni in materia di aborto devono essere riassegnate ai parlamenti dei singoli Stati. I “liberal”, in testa Joe Biden, Barack Obama, Hillary Clinton e Nancy Pelosi, sono indignati e protestano contro un provvedimento che limiterebbe la libertà della donna ma la sentenza non vieta l’aborto, stabilisce che la competenza normativa in proposito torni ai singoli Stati. E quindi agli elettori.
Si tratta di un provvedimento ispirato alla scuola giuridica di Antonin Scalia, che impone il rispetto letterale della norma, assegnandole un primato sull’interpretazione. Secondo il pensiero di Scalia, al quale evidentemente si sono ispirati i membri della Corte suprema nella recente sentenza, il giudice deve interpretare una norma stando al testo, cioè al significato che un cittadino medio ragionevole avrebbe attribuito a quelle parole al tempo dell’entrata in vigore della norma. E a quel tempo l’aborto non era considerato un diritto e la Costituzione non lo contemplava.
Il “testualismo”, ovviamente, riguarda ogni norma che disciplina la società, non solo l’aborto, ma a proposito di questo tema Scalia ha sempre affermato che poiché il testo della Costituzione federale non prescrive nulla in merito, spetta alla politica decidere come intervenire. In Planned Parenthood v. Casey, un caso del 1992, Scalia scrisse: «Gli Stati possono, se lo desiderano, permettere l’aborto su richiesta, senza che la Costituzione li obblighi però a farlo. La liceità dell’aborto e le sue limitazioni devono essere risolte come ogni altra importante questione nel nostro sistema democratico: dai cittadini che cercano di persuadersi a vicenda e poi votano».
La sentenza del 24 giugno scorso è stata criticata non soltanto dai liberal abortisti ma anche da giuristi, per ragioni di filosofia del diritto in cui non è compito nostro addentrarci. Il caso, e il libro di Portonera, ci interessano perché pongono la questione se il giudice debba farsi carico dei cambiamenti sociali. Secondo Scalia no, deve applicare la legge così com’è, non come vorrebbe che fosse. Spetta semmai al legislatore riscrivere le norme interpretando l’evoluzione sociale. E il legislatore ne risponde al cittadino. Quindi, chi vuole cambiare una norma o introdurne di nuove deve convincere i propri concittadini della bontà delle proprie idee per fare eleggere politici che le trasformino in leggi, anziché cercare un giudice che sia dalla sua parte.
È evidente l’attualità della questione, non solo negli Usa.