
È stata una delle campagne elettorali meno appassionanti degli ultimi anni. Nonostante tutto, il risultato più probabile sembrava, in Liguria, la vittoria di “Lella” Paita, considerata la continuità con i dieci anni di giunta Burlando. E, invece, ha vinto Giovanni Toti, dimostrando da un lato che il centro-destra non è morto e, se riesce a stare unito, può farcela (soprattutto se trascinato dalla Lega di Salvini), e dall’altro lato che la sinistra – o i partiti che si definiscono tali – perde se non è coesa e se viene identificata solo con un gruppo di potere che tende a perpetuarsi.
Ora il lamento nel Pd è che Luca Pastorino (che ha ottenuto il 3% in più dei voti della somma delle sue due liste) ha “fatto perdere” il Pd. Affermazione totalmente priva di controprova. Anche perché secondo l’interpretazione di chi è uscito dal Pd, è semmai il “renzismo” che ha fatto perdere Paita. Il renzismo con i suoi voti di fiducia a raffica in Parlamento, con una proposta di legge sulla scuola che ha unito nella protesta professori, presidi, studenti e famiglie, con la restituzione di un pugno di euro ai pensionati chiamando “bonus” un diritto parzialmente attuato, con politiche, soprattutto economiche, difficilmente identificabili con la sinistra, con la continua rottura verso il sindacato. A questo si aggiungono problemi tutti liguri all’interno del Pd: un notevole appannamento della giunta Burlando in questi ultimi cinque anni e una dirigenza che appare abbastanza modesta. Anche se, occorre dirlo, la prospettiva di un partito a sinistra del Pd ha raccolto solo poco più del 6%.
Il voto disgiunto sta cominciando a entrare nel bagaglio culturale dei cittadini. Lo dimostrano Pastorino e Paita (oltre il 3% in voti in meno delle sue liste), ma anche Toti, che ha avuto meno voti della somma delle quattro liste che lo appoggiavano, e Alice Salvatore che ha avuto più voti del Movimento 5 Stelle, diventato secondo partito della Liguria. Una percentuale, quella del voto disgiunto, che avrebbe potuto anche essere superiore se il regolamento consegnato ai presidenti di seggio avesse previsto anche la validità dei voti espressi senza indicare la preferenza nella lista provinciale.
Toti ha rischiato di diventare governatore in una regione ingovernabile: se le sue liste non avessero raggiunto e superato il 35% dei voti espressi, in via Fieschi non ci sarebbe stata una maggioranza (a meno di non imprevedibili soccorsi di qualcuno eletto in altre liste concorrenti). Ma è anche vero che 16 consiglieri non possono garantire la possibilità di vivere tranquilli per cinque anni. A meno di sporadici o costanti “soccorsi”. Comunque, oggi, dopo aver fatto una full immersion sui problemi della Liguria, Toti dovrà imparare rapidamente a fare anche l’amministratore che non è mai stato il suo mestiere.
Una valutazione va fatta sull’astensionismo, favorito forse anche dal disgusto per il balletto romano dell’ultima ora sugli “impresentabili” e dagli scandali legati ai finanziamenti di tutti i gruppi in consiglio regionale. E sono stati proprio coloro che non si sono recati alle urne a determinare, indirettamente, il risultato finale, rendendo più o meno consistenti le percentuali dei vari raggruppamenti. Ma un astensionismo del 50% indica drammaticamente come la politica sia in una situazione di agonia. Agonia che potrebbe trovare almeno una flebo di vitalità se i capetti dei partiti sconfitti in Liguria presentassero le proprie dimissioni.
Su queste pagine abbiamo ospitato le interviste ai candidati presidente. Di programmi, in verità durante la campagna si è parlato poco e in modo confuso: a parte l’impegno a risolvere il dramma del dissesto idrogeologico, che accomuna tutti (ma sarebbe l’ora di intervenire davvero e non solo di annunciarlo), alcune idee sembravano nate quasi da chiacchiere da bar perché scarsamente realizzabili. Ma, si sa, in campagna elettorale si promette molto, mentre quando poi si amministra si devono fare delle scelte basate anche sulla disponibilità finanziaria. E – diciamolo – sull’obbligo di confrontarsi con la potente burocrazia regionale.
Su quale base si è andati a votare, quindi? Sui temi di confusa attualità di questa campagna elettorale (immigrati e rifugiati, e persino la simpatia o meno per l’Europa), su un sempre più pallido senso di appartenenza, sull’adesione alla persona o al gruppo di potere che lo sostiene. E, in Liguria, anche pensando alla situazione economica davvero pesante (elevata disoccupazione, chiusura di aziende, mancanza di prospettive) e con il ricordo del dissesto idrogeologico che ormai annualmente colpisce tutte le aree della regione. Non molto di più.
La verità è che stiamo vivendo un periodo di transizione. Cadute le ideologie, resta una società frammentata e diffusa, sostanzialmente individualista ed egoista. La bassissima immagine dei cosiddetti “politici” fa il resto. E prima o poi qualcuno dovrà porsi, non a parole, il problema della disaffezione di metà dell’elettorato, privata della voglia di recarsi alle urne.